TRA
MISTICA E POLITICA
Ho
il piacere di presentare un articolo di Ileana Tozzi sulla spiritualità
femminile, che nel Medio Evo occupa un posto di importanza pari a quella
maschile. Qui è trattato in special modo la spiritualità di un Terz'Ordine,
che fu una novità introdotta nel Medioevo dagli ordini mendicanti, francescani
e domenicani. Quest'intervento di una donna che parla di donne mi sembra
il più adatto per trattare un argomento non facile, in un Medioevo dalle fonti
prettamente maschili e maschiliste.
L’ESPERIENZA FEMMINILE
NELL’AMBITO DEL TERZ’ORDINE
DELLA PENITENZA
DI SAN DOMENICO
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Introduzione
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Contestualizzazione
storica:la presenza delle Domenicane del Terz’Ordine della Penitenza sullo
scenario delle città italiane tra medioevo ed evo moderno
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Note
biografiche:Vanna da Orvieto(1264-1306),Margherita da Città di Castello
(1287-1320), Lucia da Narni (1476-1544).
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L’esperienza
della mistica
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La
sublimazione della sofferenza
¨
La
pratica politica: parole di profezia e di pace
¨
Considerazioni
conclusive
INTRODUZIONE
La tradizione devozionale ha consegnato alla storia molteplici figure di
sante le cui doti umane sfumano, sublimandosi, in una dimensione canonica
determinata dall’affermazione di tratti di virtù che si sono ben prestati,
attraverso i secoli, a fornire esempi di vita, a modellare coscienze e
comportamenti diffusi, funzionali all’organizzazione della società secondo
ranghi e ruoli ben definiti.
Ma le forme di santità femminile praticate nel lungo periodo che
attraversa i secoli dal medioevo all’ età moderna, sullo scenario vitale
delle città italiane che vivono la concitata stagione delle libertà comunali
fino a cercare stabilità ed equilibrio nel potere signorile, sfuggono ad ogni
rigida catalogazione per la pluralità e la ricchezza delle esperienze di
crescita spirituale ed umana caratterizzanti le singole personalità
carismatiche, riverberandosi all’interno degli ambiti sociali alla cui
affermazione hanno di fatto generosamente contribuito.
La letteratura agiografica,che pure esalta con evidenti finalità
apologetiche le virtù individuali, offre attraverso la varietà e la vastità
delle fonti materiali preziosi, imprescindibili se s’intenda procedere ad
un’analisi metodologicamente attuale, che si proponga di stabilire secondo
validi criteri di ricerca il portato delle singole esperienze, non riducendo ad
icona le figure delle mulieres sanctae
che si presentano all’ attenzione della ricerca storiografica, ma mutuando
dalle note biografiche tanto i dati della loro singolarità, quanto le forme
della loro santità di vita, traducibili in exempla
e riproducibili come modelli per le laiche e le religiose, per le madri di
famiglia e per le seguaci di una Regola.
Tale ricerca, così finalizzata, intende restituire
spessore storico a figure di beate e di sante che la tradizione locale non ha
mai dimenticato, pur avendo di fatto contribuito ad appiattirne la memoria
riconducendola nelle forme stereotipe della devozione di popolo, intende
proporre un’interpretazione articolata e complessa dimostrando la veridicità
di un’intuizione,secondo la quale generazioni successive di donne dall’alta
spiritualità si riconoscono in un comune progetto di vita, vestendo l’abito
di uno specifico Ordine e costituendo
una sorta di genealogia nell’ambito della
religiosità e della santità femminile, che trasmette conoscenze e
testimonia la crescita dell’impegno morale e del contributo spirituale offerto
da queste donne dall’intensa vita interiore alla società religiosa e civile
del tempo in cui vissero.
Procedendo nella definizione spazio/temporale e nell’individuazione di
soggettività femminili che si prestassero ad una lettura paradigmatica, la
scelta si è circoscritta agli ambiti storici delle città comunali
dell’Italia mediana, quelle “cento
città” mai assurte ai ranghi delle future capitali - della cultura, della
politica, dell’economia - che pure hanno connotato la storia italiana
contribuendo a diffondere i principi fondanti la civiltà comunale e signorile.
“L’aria della città rende
liberi”: questo incisivo messaggio non contrappone soltanto la città alla
campagna, proponendo più aperte e versatili forme di vita associata rispetto
alle tradizionali, più rigide modalità retaggio dei regimi feudali.
La libertà, in età comunale, pur subordinata alle scelte ideologiche di
fondo, che legavano la città alle sorti del Papato o dell’Impero, è intesa
innanzi tutto come prospettiva, nel rispetto e nell’attuazione delle norme
statutarie sancite autonomamente da ciascun Comune,come opportunità consentita
a ciascun individuo, affinché possa manifestare ed affermare le proprie
potenzialità.
Questo clima culturale, che si afferma e si diffonde tra il XIII ed il XV
secolo, ben definisce il contesto di vita nel quale operano gli Ordini
Mendicanti, ed in cui riveste una particolare funzione di sensibilizzazione
l’Ordine dei Predicatori.
Nell’ Umbria, che include fino ai primi decenni di questo secolo la
subregione Sabina, costituendo un nodo di comunicazione e di scambio di vitale
importanza tra i confini del Regno di Napoli ed i territori nell’orbita del
Patrimonio di San Pietro, i Domenicani sono presenti non solo mediante la
fondazione della grande basilica di Perugia, ma soprattutto attraverso la
capillare diffusione della loro spiritualità, di frequente testimoniata dalle mulieres
sanctae del Terz’Ordine della Penitenza.
Orvieto, Todi, Città di Castello costituiscono gli scenari sui quali si
svolge la storia mirabile di alcune carismatiche destinate a segnare il tempo ed
i luoghi in cui vissero: si tratta di centri urbani di antica tradizione, di
origine preromana, umbri come le arcaiche Tuder
e Tifernum,o etruschi come Volsinii
vetus, successivamente assoggettati ed associati come municipi alla res
publica romana o rifondati dopo una violenta, distruttiva sottomissione.
La crisi dell’Impero, lo spopolamento delle città nei secoli bui
dell’alto medioevo segnano questi abitati insieme con i territori limitrofi,
ma non ne stravolgono l’assetto economico ne’ la fitta trama della società,
che si radica fortemente nella tradizione agropastorale mano a mano aprendosi al
commercio ed agli scambi.
Qui il Cristianesimo si diffonde fin dai primi secoli, seguendo il
tracciato delle antiche vie consolari che si diramano da Roma, scandite dalle
catacombe e dai cippi che segnano i luoghi consacrati dal martirio dei testimoni
della nuova fede, qui si originano le prime forme di vita cenobitica derivate
dall’intuizione di San Benedetto da Norcia, destinate a culminare
nell’esperienza farfense.
Il periodo dell’incastellamento vede munirsi di nuove difese questi
vetusti insediamenti, che mai hanno cessato di essere città: più alte mura si
ergono dunque a cingere gli antichi abitati, su cui svettano ora le case/torri
ed i campanili delle chiese.
L’età comunale segna, qui prima ancora che altrove, il termine di un
secolare declino.
Mentre l’agricoltura viene ad incrementarsi grazie al ricorso a tecniche
innovative, tornano a fiorire le attività di un artigianato di prim’ordine,
specializzato nella produzione di tessuti pregiati, nella concia e nella
lavorazione dei pellami, nella fabbricazione di laterizi; del pari fioriscono i
traffici ed i commerci, ad opera di intraprendenti mercanti che sfidano i rischi
dei lunghi viaggi lungo le rotte dell’economia medievale per approvvigionarsi
di lini nelle Fiandre, di sete e di spezie in Oriente.
La società borghese che viene dunque ad affermarsi nel medioevo maturo,
contribuendo con il fervore delle sue imprese alla rinascita delle città, si
dota di norme imprescindibili, atte a regolarne la vita secondo le specifiche
esigenze registrate dagli Statuti.
La diffusa aspirazione al benessere ed alla concordia civile è
magistralmente resa nel vasto,complesso affresco campito lungo le pareti della
Sala dei Nove presso il Palazzo Pubblico di Siena: la rappresentazione degli
effetti del buon governo e del cattivo governo,affidata all’abilità pittorica
di Ambrogio Lorenzetti, non è resa mediante il ricorso all’allegoria ne’
all’astrazione simbolica, ma segue piuttosto un rigido schema didascalico, che
non cela le tensioni morali e le problematiche di ordine spirituale che
attraversano tale società.
Tanto sul versante politico, quanto su quello economico infatti
l’individuo è chiamato a compiere delle scelte precise, dalle profonde
implicazioni etiche e religiose: l’uomo medievale in generale, ed in
particolare il borghese dell’età comunale non può esimersi dallo schierarsi
con il Papato o con l’Impero, con i Ghibellini o con i Guelfi, ne’ può
esercitare la mercatura senza essere consapevole di quanto sottile sia il
discrimine tra il lecito guadagno e lo spettro dell’usura.
In questa società vive ed agisce, partecipando attivamente ai fervori che
animano ed agitano la sua città Vanna da Orvieto (1264 - 1306), che condivide
come tessitrice e ricamatrice l’esperienza di tante donne sue
contemporanee,lavoratrici che le Arti minori accolgono senza riconoscere loro il
grado di Maestre di Bottega, neppure quando dalle loro mani escono preziosi
damaschi e ricami di gran pregio.
Il portato dell’esperienza compiuta da Margherita da Città di Castello,
la cieca della Metola, s’innesta invece in un contesto aristocratico,
connotato dai conflitti e dalle problematiche derivanti dal trapasso
dall’assetto feudale alla civiltà comunale: duplicemente segnata dallo stigma
della diversità, unica erede di un casato le cui fortune sono ormai in declino,
inutile per il suo sesso all’esercizio delle armi, esclusa per la sua cecità
dalle strategie matrimoniali, la piccola Margherita viene affidata dai genitori
ad una generosa, ospitale famiglia di Città di Castello, dopo l’estremo
fallimento della prova del miracolo.
Madonna Grigia e messer Venturino, che diventeranno così i genitori
adottivi della piccola cieca, l’accolgono con sincero affetto, allevandola
insieme con i loro figli.
Straordinarie qualità umane, che compensano i disagi della cecità, non
tardano a manifestarsi prefigurando la futura fama di santità, a cui Margherita
è destinata.
La scelta di vita religiosa non è per la giovane una scelta obbligata:
viene anzi respinta in un tempo da una comunità religiosa dai costumi
rilassati, riconsegnata ad una vita dai contorni incerti di una stentata
quotidianità.
La Regola del Terz’Ordine della Penitenza di San Domenico offre anche a
Margherita da Città di Castello quella opportunità di autonomia e di
affermazione spirituale che consentono ai suoi doni carismatici di manifestarsi
e beneficiare i suoi concittadini.
Dopo aver vestito l’abito di Terziaria, Margherita raduna intorno a sé numerose donne che sperimentano con lei la preghiera, che ne condividono
la fede e l’aspirazione ad una vita religiosa i cui esiti possano riverberarsi
sulla società civile, contribuendo a moralizzarne i costumi.
La serenità con la quale Margherita porta su di sé i segni della
malattia, la capacità di consolare ed alleviare le pene altrui la rendono un
valido, autentico esempio di vita: a lei si rivolgono nobili e plebei, poveri e
ricchi, sani ed ammalati ricevendone un conforto spirituale frequentemente
recepito al pari di un messaggio profetico, vissuto con l’intensità di un
intervento miracoloso e salvifico.
Se dunque in età comunale le Domenicane del Terz’ Ordine della
Penitenza assolvono ad un delicato compito alimentando all’ interno della
società civile i sentimenti di concordia e promuovendo comportamenti improntati
alla solidarietà, il loro ruolo si fa di prim’ ordine quando inizia a porsi
l’esigenza della pacificazione tra le fazioni e si richiede alle magistrature
comunali, travagliate dai contrasti ideologici e dai conflitti interni, una
stabilità amministrativa e politica che non sono più in grado di garantire.
Nel rapido processo di trasformazione che determina la nascita delle
Signorie, queste donne di alta spiritualità, interpretando il carisma
Domenicano che incarna i principi della vera fede espressi nella Città di Dio e
li rende manifesti, proponendoli come cardini della vita civile nella città
dell’uomo, mettono in gioco la loro autorevolezza ed il loro prestigio
assumendo una duplice funzione di maternage spirituale e di consulenza politica
nei confronti delle potenti famiglie che via via si affermano alla guida di
molte città dell’ Italia centro-settentrionale, dove il fenomeno dell’insignorimento
assume il più ampio rilievo.
Colomba da Rieti a Perugia, Osanna Andreasi a Mantova, Lucia da Narni a
Ferrara sono prodighe di raccomandazioni e consigli, facendo di frequente
ricorso alla vis della loro parola profetica, al nobile fine di mitigare i
provvedimenti amministrativi, di orientare positivamente le scelte politiche
troppo di frequente caratterizzate dal ricorso alle armi per la risoluzione dei
contrasti, illuminando le coscienze dei potenti al fine di garantire al popolo
una vita migliore anche in questo mondo, come prefigurazione del Regno dei
cieli.
Lo straordinario proposito che ricorre nelle Vitae stilate dai confessori delle mulieres sanctae, ribadito nei loro scritti autobiografici, che
cominciano a moltiplicarsi al tramonto dell’età medievale, è quello di
garantire pace e concordia civile al popolo, affinché le auspicate condizioni
di stabilità e benessere materiale possano essere il presupposto di un
rinnovamento morale ormai irrevocabile.
E’ il fine ultimo che aveva animato fin dalle origini gli Ordini
Mendicanti, ed in particolare l’Ordine dei Predicatori.
Il ramo femminile della Famiglia Domenicana, ancora fortemente radicato
nella società laica mediante l’adesione alla Regola di fra Munio di Zamora,
non accede alle forme canoniche dell’evangelizzazione esperita mediante
l’attività omiletica, ma non rifugge dall’impegno totalizzante di una
riforma che si progetta ad un tempo sul piano spirituale e morale,sul piano
sociale e politico.Contemporanee del Savonarola, le Domenicane del Terz’Ordine
della Penitenza che rivestono il ruolo di consigliere spirituali presso le corti
signorili sono animate da analoghi intenti, e non si sottraggono all’onta
delle accuse ed all’umiliazione delle vessazioni di cui frequentemente sono
fatte oggetto.
I seguaci degli Oddi, esiliati da Perugia dopo l’affermazione del casato
dei Baglioni alla guida della città, non esitano ad accusare Colomba da Rieti
di faziosità e partigianeria,benché la monaca non cessi dall’esercitare
un’influenza benefica e pacificatrice, ammonendo aspramente gli orgogliosi
Baglioni ed agendo instancabilmente per il bene del popolo.
Ancor più amara è la sorte che attende Lucia da Narni (1476-1544),
dapprima tenuta in grande considerazione da pontefici e sovrani, poi condannata
senza alcuna colpa a lunghi anni di isolamento e di oblio.
La vita di quest’ultima è certo segnata dai più aspri contrasti,
caratterizzata dalle più varie esperienze: di nobili natali, contrae
giovanissima un casto matrimonio con un aristocratico milanese che abbandona per
vestire l’abito del Terz’Ordine della Penitenza di San Domenico.
Lascia poi la città natale per raggiungere il monastero viterbese di
Santa Caterina.
La straordinaria fama di santità di vita che presto si diffonde,
accresciuta dal miracolo della stigmatizzazione, fa sì che lo stesso pontefice
la chiami a Roma: Lucia dichiara la sua obbedienza, ma la sua partenza è di
fatto impedita dalle resistenze dei viterbesi, che vedono in lei un indubbio,
irrinunciabile elemento di coesione e di pacificazione civile.
Per fini analoghi, il duca di Ferrara Ercole I d’Este la vuole presso la
sua corte: tra il signore e la monaca s’intreccia un lungo,edificante
carteggio, mentre si attivano i canali della diplomazia e si mobilitano le
milizie per organizzare il viaggio da Viterbo, alla volta di Ferrara.
Si tratta in realtà di un’autentica fuga: abilità amministrativa e
politica che non sono più in grado di garantire.
L’analisi complessiva dedicata a cogliere e tratteggiare i dati salienti
della biografia e della vita interiore di Vanna da Orvieto, Margherita da Città
di Castello, Lucia da Narni tende dunque a verificare la validità e la
consistenza di un’ipotesi formulata in ordine all’esperienza di vita
religiosa praticata dalle moniales del
Terz’Ordine della Penitenza di San Domenico, in cui si ravvisa, in una
pluralità di forme, in una serie diversa di figure, la volontà determinata di
manifestare un impegno che è del pari etico e spirituale, religioso e sociale,
coerente con le istanze dell’Ordine dei Predicatori, messa in atto con
dedizione sullo scenario dell’Italia dei Comuni e delle Signorie.
LA PRESENZA DELLE DOMENICANE DEL TERZ’ORDINE DELLA PENITENZA SULLO
SCENARIO DELLE CITTA’ ITALIANE TRA MEDIOEVO E PRIMA ETA’ MODERNA
La lunga età del basso medioevo discerne con particolare attenzione
nominalistica la linea di demarcazione concettuale tra città e comune, sia pur
riassumendone con Guittone d’Arezzo nella “vertù”
la caratteristica saliente.
Così Brunetto Latini argomenta nella Rettorica
(10 -20) “ Cittade è uno raunamento di
gente fatto per vivere a ragione; onde non sono detti cittadini d’uno medesimo
comune perché siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme
sono accolti a vivere ad una ragione”. Il più celebre erudito del XIII
secolo parafrasa se’ stesso, dal momento che nella compilazione enciclopedica
de “Li livres dou Tresor” aveva
dato tale definizione: “Cités est uns
assemblements de gens a abiter en un lieu et vivre a une loi”.
Il senso di profonda, intima coesione così ribadito è dunque il più
autentico e diffuso elemento, individuato ed indicato per caratterizzare il
fenomeno dell’autonomia amministrativa esercitata da parte dei centri urbani,
colti nella fase della massima espansione demografica e del pieno consolidamento
della loro economia.
Richiamandosi alla definizione del suo antico maestro, Dante da nel Convivio
(IV - IV - 2) una più articolata descrizione, che muove dall’auctoritas
aristotelica ed attraversa con Cicerone l’evo antico: “E
sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così
una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza ... E però che una vicinanza
a sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la
cittade.
Ancora la cittade richiede a le
sue arti e a le sue difensioni vicenda avere e fratellanza con le circonvicine
cittadi; e però fu fatto lo regno”.
La trama di solidarietà e la condivisione di intenti che dunque connota
la vita cittadina non può basarsi esclusivamente su moventi economici ed
interessi materiali, pena lo snaturamento lamentato a proposito
dell’esperienza inglese dal monaco Riccardo di Devizes, che nel suo Chronicon scrive amaramente: “Communia
est tumor plebis, timor regni, topor sacerdotii”.
Proprio per risvegliare e rinvigorire le funzioni del sacerdozio,
dall’evangelizzazione alla lotta contro le eresie, dall’ apostolato
all’esercizio della carità, gli Ordini Mendicanti scelgono come campo della
loro azione i contesti urbani nei quali profondono il loro impegno incidendo
radicalmente nella realtà urbana.
Per quanto riguarda in particolare l’Ordine dei Predicatori,
l’opportunità di intraprendere nelle città il loro apostolato è sostenuta
dal Maestro Generale Umberto di Romans già fin dalla seconda metà del XIII
secolo: nel suo manuale De eruditione
Praedicatorum infatti è chiarito un concetto fondamentale in ordine alla
diffusione del messaggio evangelico, che più facilmente dal centro urbano può
espandersi nelle campagne.
Accanto all’influenza positiva che la città, in quanto polo di
attrazione, esercita sul contado,favorendo la circolazione delle idee e lo
scambio delle esperienze, Umberto di Romans non ignora al contrario che proprio
l’elevata concentrazione di abitanti che vi si riscontra comporta, stavolta
negativamente, una moralità più rilassata che richiede dunque più incisivi
interventi riguardo agli orientamenti di cultura e di costume.
A volte, i predicatori non si limitano a svolgere il loro compito di
apostolato e di moralizzazione, ma si fanno essi stessi soggetti giuridici del
cambiamento politico, economico, amministrativo: è
quanto tenta di realizzare nel 1233 a Parma il frate minore Gherardo da
Modena, così come il Domenicano fra Girolamo Savonarola s’impegnerà nel
condurre a perfezione la vigna del Signore nella Firenze di fine Quattrocento.
Un simile impegno è motivato dalla richiesta d’impegno politico a cui
la Chiesa è chiamata a causa della frattura creatasi con i ceti aristocratici
al tempo della lotta per le investiture.
Una presenza costante nella vita secolare, un impegno non episodico nella
gestione politica e nell’amministrazione economica della città medievale
costituisce infatti parte integrante delle attività pastorali che un vescovo
assolve nella sua missione.
Non meno inseriti nella società, tanto nei centri urbani, quanto nelle
campagne, sono i membri del clero regolare e del clero secolare, che uniscono
alla cura d’anime impegni ed interessi marcatamente materiali.
Gli Statuti civici ed i Libri delle Riformanze confermano, lungo l’arco
di tempo che segna la durata dell’istituzione comunale, la complessità dei
rapporti che intercorrono tra società civile e società religiosa, riconoscendo
ai membri di quest’ultima indubbia autorità ed indiscusso prestigio.
Così, nei numerosi giorni festivi che scandiscono il corso dell’anno,
vengono sospese le attività commerciali - a meno che alla solennità religiosa
non sia associata una fiera - vengono interrotti tanto i processi civili quanto
il lavoro dei campi: dagli elenchi De
Feriis non mancano mai i giorni dedicati ai Santi fondatori degli Ordini
Mendicanti.
Frequentemente, gli Statuti si aprono con una dichiarazione d’intenti
che colloca la pubblica amministrazione in posizione subalterna rispetto
all’autorità religiosa, considerata emanazione della potestà divina, alla
cui grazia ci si raccomanda.
Così ad esempio gli Statuti reatini inaugurano il Libro Primo con due
articoli, De Credenda fide catholica,et ea
simpliciter confitenda (I,1) e De
honore, et reverentia Sanctae Matri Ecclesia adhibenda (I,2), che confermano
le considerazioni premesse dal legislatore e le vincolano alla sacralità dei
comandamenti e dei precetti della Chiesa: “Omnis Etas,& omnis natura in malum prona est ab adulescentia sui,
cursusque noster proclinus est ad voluptatem, & natura mutatrix est vitiorum,
novasque edere formas deproperans continue labitur ad delicta. Et ideo
necessarium est leges, & statuta fieri, ut corum metu humana coherceatur
audacia, tutaque sit inter reprobos innocentia: & in ipsis reprobis nocendi
facultas supplicii formidine refrenet, appetitusque nexius sub iure regulis
limitetur, quas ut honeste vivatur alterum non ledat ius suum unicuique tribuat,
& informet Id circo infrascript. Statuta”.
Ancor più chiaro l’intento espresso nei più tardi Statuti della città
di Corneto (1545), che impegnano il Comune ed il popolo all’obbedienza - non
solo dogmatica, ma politica ed amministrativa - al Papa: Quod populus Cornetanus semper conservetur sub devotione Sanctae Romanae
Ecclesiae, et Sanctissimi Domini nostri Papae Leonis Decimi (I,1) “In
primis, ut ad hoc civitas Corneti, ipsiusque Populus manuteneatur atque perpetuo
gubernetur sub devotione, fidelitate, regimine, gubernio, et dominio sanctae
Romanae Ecclesiae, et Sanctissimi Domini nostri Papae,et non sub alio regimine,
et dominio; Statuimus, firmiterque ordinamus ...”ribadendo così con una
serie articolata di norme la petizione di principio, consolidatasi nei secoli
all’interno del Patrimonio di San Pietro.
Articoli specifici sono previsti a regolamentare i rapporti con la Curia,
come è nel caso degli Statuti della città di Rieti che segnatamente
stabiliscono Copia pactorum initorum &
factorum inter dominum Episcopum, et capitulum maioris Ecclesiae Reatinae &
commune Reatae (III,99) o intervengono in questioni relative ai rapporti tra
la comunità e gli Ordini, come nel caso di un articolo specifico De
Iure fiendo fratribus Sancti Francisci (I, 131).
Più frequentemente, simili questioni vengono esaminate nelle Riformanze.
Sta di fatto, come confermano già i pochi esempi riportati, che risulta
essere parte costitutiva della comunità medievale il legame profondo con la
Chiesa, che è garante del legame con Dio.
Tale nesso si mantiene parte integrante fin nell’età moderna, come gli
Statuti cornetani del secolo XVI chiaramente dimostrano.
Il legislatore dunque coglie l’intensità del rapporto dialettico tra
l’umano ed il divino e ne fa materia di diritto, proponendo norme descrittive
e prescrittive che possano essere condivise proprio perché fondate su un comune
principio di appartenenza ad un ordine modellato sulla perfezione della volontà
di Dio.
Ma tale principio è presente alla consapevolezza comune, determinata ab
antiquo dalla tradizione feudale, in base alla quale si cerca e si chiede una
protezione, una intercessione che faccia da ponte tra l’umano e il divino.
Così come politicamente i Comuni sono liberi ed autonomi nella misura in
cui aderiscono ad una specifica orbita, guelfa o ghibellina, papale o imperiale,
all’interno delle comunità cittadine si cerca e s’individua nel patronato
dei santi il cemento spirituale e morale della collettività.
L’iconografia sacra offre ulteriori conferme nella elaborazione di due
diversi modelli di rappresentazione che si affermano e si diffondono a partire
dal XIII secolo: la Madonna della Misericordia, che accoglie i fedeli sotto il
suo mantello, il Santo o la Santa che offre a Dio la città.
In entrambi i casi, i grandi artisti come gli anonimi frescanti medievali
colgono un aspetto singolare ed esemplare del collettivo sentimento di
appartenenza che fonda storicamente l’origine del libero comune: la società
viene sempre rappresentata non come massa indistinta, ma come ordinata serie di
classi e categorie, ciascuna con il suo ruolo e le sue prerogative, di cui è
orgogliosa e gelosa custode, ciascuna del pari consapevole dell’utilità e
dell’opportunità della collaborazione su questa terra per il buon vivere
civile, coltivando nella concordia quei sentimenti che ispirano alla vita
eterna.
La devozione mariana, appassionatamente promossa dagli Ordini Mendicanti,
ben si presta ad educare le coscienze ed a disciplinare i comportamenti, ponendo
i fedeli sotto l’alta protezione della Vergine che pietosamente comprende le
miserie umane, condividendo anch’essa per natura la condizione umana, resa
ancor più indulgente dalla maternità divina: l’intercessione della Madonna
è dunque resa manifesta nell’atto simbolico di protezione raffigurato dal
manto celeste, teso al di sopra degli uomini e delle donne, dei laici e dei
religiosi, dei poveri e dei ricchi che si rivolgono a lei nella preghiera, che
le dedicano altari e commissionano dipinti in suo onore.
Tali significati vengono confermati nella fioritura di tradizioni orali e
di canti devozionali, liberamente elaborati dai fedeli e cantati nelle
processioni organizzate dai membri delle Confraternite, le cui funzioni di
coesione sociale e di solidarietà riproducono su scala ridotta le finalità dei
Comuni, aggregando i lavoratori delle Arti e le loro famiglie o costituendo nei
quartieri di nuova formazione dei centri di mutua assistenza.
Analogamente vengono proposte le immagini di Santi legati alle leggende di
fondazione della città, cari alla devozione popolare, le cui reliquie sono di
solito custodite nel Duomo o nelle chiese a loro intitolate: questi vengono
raffigurati nell’atto di offrire la chiesa o l’intera città alla protezione
divina.
Quando è la città nel suo insieme a costituire l’oggetto
dell’offerta simbolica - o della simbolica transazione, dal momento che la
comunità tende così a stabile un patto con il divino, ottenendo in cambio la
più alta tutela - essa viene rappresentata circoscritta dalle sue mura, segnata
dai vertici svettanti dei campanili e delle torri, organizzata dunque secondo un
ordine rigoroso che tende a riprodurre l’ordine perfetto della città di Dio.
Gradualmente, nella percezione del senso comune, alle figure dei Santi
della tradizione - i Martiri dei primi secoli, i Padri della Chiesa - si
associano i Patriarchi degli Ordini Mendicanti con i loro seguaci, presenti ed
attivi proprio là dove è più intenso il bisogno di conforto spirituale e di
preghiera, di aiuto materiale e morale.
Nuove figure di santità dunque si modellano e si propongono come
esemplari, assumendo del pari un ruolo attivo di protezione e di tutela: tra
queste, appaiono singolari le “cellane”,
donne dall’alta spiritualità che scelgono di segregarsi dal mondo perché il
mondo possa gedere del benefico apporto della loro presenza.
Le forme estreme prescelte e praticate da Verdiana a
Castelfiorentino, da Umiliana de’ Cerchi a Firenze, da Sibillina Biscossi a
Pavia vengono a costituire un elemento di forte coesione sociale: la città si coagula intorno alle loro celle, erette a fianco delle
chiese o addirittura al loro interno.
Il contatto con il mondo esterno è costantemente
reciproco: le cellane ricevono cibo, il poco alimento che le sostenta, ma
danno consiglio e conforto
spirituale, garantiscono con la loro vita ascetica l’offerta che la comunità
nel suo insieme compatto e multiforme reca a Dio, mettono in pratica una
dinamica religiosa che gli Ordini regolari, come i Francescani ed i Domenicani,
recepiscono ed organizzano nel loro apostolato.
E’ esemplare al riguardo la vicenda di Sibillina da Pavia, narrata nel
III volume degli Acta Sanctorum, con
il titolo de B.Sibyllina Papiensi, Sorore
de Poenitentia S.Dominici,Ticini in Italia.
Sibillina perde la vista a dodici anni: accolta ed assistita dalle Monache
della Penitenza di San Domenico, confida per tre anni nel miracolo che le
restituisca le piene facoltà.
Dapprima delusa, poi rassegnata alla cecità, “Deo & B.Dominico patrono suo innumeras gratias agens, Anno vero
aetatis suae decimo quinto reclusorium intravit, de quo in vita sua bis dumtaxat
exivit; in quo septem primis annis ab ingressu poenitentiam magis admirabilem,
quam imitabilem fecit; tam deinceps temperans corpusculum mortificabat diuturnis
vigilijs, orationibus, lacrymis, disciplinis usque ad sanguinis effusionem,
crebro congelantem eius genua cum pavimento: igne non utens in hyeme, neque
vestibus alijs, quam in aestate: fatigata membra super tabulam brevem lignea qua
semper utebatur pro lecto, somno brevissimo recreans: consolationes mentales
sumens ex colloquijs servorum Dei, licet doloribus fatigata immensis. Claruit
autem spiritu prophetico, quaedam secreta, quaedam futura pandens”.
La cecità fisica di Sibillina è dunque il prezzo della facoltà
profetica, che ribadisce ed invera l’etimologia del suo nome.
Intorno alla centralità del nome, fonte primaria dell’identità, altre
testimonianze esplicitano il senso di una riflessione che la filosofia medievale
elabora sistematicamente: Vanna da Orvieto dichiara non senza orgoglio di essere
chiamata Pulcherrima, Bellissima nell’alto dei cieli, Villana delle Botti
assume in paradiso il nome di Margherita, Colomba da Rieti è al fonte
battesimale chiamata Angela o Angelella.
Ma questo aspetto nominalistico sarà approfondito più opportunamente
nell’analisi comparativa delle fonti.
Ciò che è importante cogliere ed evidenziare, per poter procedere nella
lettura dell’esperienza spirituale compiuta dalle Sorelle del Terz’Ordine
della Penitenza di San Domenico, è la corrispondenza di un dato biografico
ricorrente nella tradizione che si afferma in età comunale e da frutti fino
alle soglie dell’età moderna: la funzione sincretica assolta inizialmente
dalle “cellane” viene fatta propria da una successiva generazione di donne
dall’intensa spiritualità che mantiene stretti legami con la società civile,
continuando a vivere nel secolo o rendendo simbiotico il contatto tra il
monastero e il borgo, tra il chiostro e la città.
NOTE BIOGRAFICHE.
E’ dunque lo scenario della città medievale, animata dai commerci e
dalle più varie attività di produzione, polo d’attrazione per la campagna,
centro di scambio culturale e luogo dei conflitti, a delineare il contesto sul
quale agiscono le donne dalla profonda spiritualità che riconoscono nel
messaggio di San Domenico e nell’impegno diuturno dei Padri Predicatori che ne
seguono e ne diffondono la Regola un modello di comportamento a cui si adeguano
o, più di frequente, s’ispirano, trovando in esso un principio di
disciplinamento ed uno spazio di autonomia.
Il Terz’Ordine della Penitenza, amplari, assumendo del pari un ruolo
attivo di protezione e di tutela: tra queste, appaiono singolari le “cellane”,
donne dall’alta spiritualità che scelgono di segregarsi dal mondo perché il
mondo possa gedere del benefico apporto della loro presenza.
Le forme estreme prescelte e praticate da Verdiana a
Castelfiorentino, da Umiliana de’ Cerchi a Firenze, da Sibillina Biscossi a
Pavia vengono a costituire un elemento di forte coesione sociale:la città si
coagula intorno alle loro celle, erette a fianco delle chiese o addirittura al
loro interno.
Il contatto con il mondo esterno è costantemente reciproco: le cellane
ricevono cibo, il poco alimento che le sostenta, ma danno consiglio
e conforto spirituale, garantiscono con la loro vita ascetica l’offerta che la
comunità nel suo insieme compatto e multiforme reca a Dio, mettono in pratica
una dinamica religiosa che gli Ordini regolari, come i Francescani ed i
Domenicani, recepiscono ed organizzano nel loro apostolato.
E’ esemplare al riguardo la vicenda di Sibillina da Pavia, narrata nel
III volume degli Acta Sanctorum, con il titolo de B.Sibyllina Papiensi, Sorore
de Poenitentia S.Dominici,Ticini in Italia.
Sibillina perde la vista a dodici anni: accolta ed assistita dalle Monache
della Penitenza di San Domenico, confida per tre anni nel miracolo che le
restituisca le piene facoltà.
Dapprima delusa, poi rassegnata alla cecità, “Deo & B.Dominico patrono suo innumeras gratias agens, Anno vero
aetatis suae decimo quinto reclusorium intravit, de quo in vita sua bis dumtaxat
exivit; in quo septem primis annis ab ingressu poenitentiam magis admirabilem,
quam imitabilem fecit; tam deinceps temperans corpusculum mortificabat diuturnis
vigilijs, orationibus, lacrymis, disciplinis usque ad sanguinis effusionem,
crebro congelantem eius genua cum pavimento: igne non utens in hyeme, neque
vestibus alijs, quam in aestate: fatigata membra super tabulam brevem lignea qua
semper utebatur pro lecto, somno brevissimo recreans: consolationes mentales
sumens ex colloquijs servorum Dei, licet doloribus fatigata immensis. Claruit
autem spiritu prophetico, quaedam secreta, quaedam futura pandens”.
La cecità fisica di
Sibillina è dunque il prezzo della facoltà profetica, che ribadisce ed invera
l’etimologia del suo nome.
Intorno alla centralità del nome, fonte primaria dell’identità, altre
testimonianze esplicitano il senso di una riflessione che la filosofia medievale
elabora sistematicamente: Vanna da Orvieto dichiara non senza orgoglio di essere
chiamata Pulcherrima, Bellissima nell’alto dei cieli, Villana delle Botti
assume in paradiso il nome di Margherita, Colomba da Rieti è al fonte
battesimale chiamata Angela o Angelella.
Ma questo aspetto nominalistico sarà approfondito più opportunamente
nell’analisi comparativa delle fonti.
Ciò
c il giorno della morte.
Stando così le cose, non sembra opportuno collocare codesta Giovanna tra
i santi, più che tante altre piissime vergini di questo e di altri Ordini,
altrettanto degne di lodi per virtù e miracoli, così come è altrove annotato.
"Qualora il culto di lei legittimamente venga permesso, se ne potrà
trattare in questo mese o in un eventuale supplemento all’intera opera”(1). Fin qui, dunque, si esprimono i dotti e scrupolosi Padri Bollandisti,
estensori degli Acta Sanctorum che non attribuiscono credibilità alle forme di
devozione spontanea e di culto locale ab immemorabili, ritenendo di dover
ordinare e classificare i santi ed i beati in ordine a criteri ben saldi,
fondati inconfutabilmente su tradizioni verificabili: i tratti salienti della
biografia di Vanna da Orvieto vengono ricapitolati in maniera sommaria,
attenuati nei loro aspetti più singolari.
Una descrizione più ampia ed articolata ne offre l’agiografo Giacomo
Scalza, nel testo della Legenda a lei dedicata.
Restano essenziali i dati biografici: Vanna nasce a Carnaiola, presso
Orvieto, nel 1264.
Rimasta orfana in tenera età, viene accolta in casa da parenti, che
provvedono alla sua educazione ed alla sua formazione professionale.
Apprende infatti l’arte del ricamo, che eserciterà per tutta la vita.
Preso l’abito del Terz’ Ordine della Penitenza di San Domenico, compie
esperienze di straordinaria intensità spirituale, attraverso la contemplazione
e l’estasi mistica, che rifonde nella pratica quotidiana della carità
proponendosi come guida morale per i suoi contemporanei.
I concittadini dunque si rivolgono a lei con fiducia, affidando alla sua
perspicacia ed alla sua oblatività le loro pene.
Le indubbie doti profetiche la pongono al centro dell’attenzione da
parte delle autorità civili; lo stesso Ordine dei Predicatori ne legittima
l’esperienza e ne fa proprio il culto dopo la morte, avvenuta nel 1306.
Anche se tale culto rimane circoscritto all’ambiente orvietano, viene
confermato da papa Benedetto XIV nel 1754.
Secondo padre Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, curatori della
fondamentale raccolta Scrittrici Mistiche Italiane (Genova, 1988), “Il
testo agiografico restituisce solo in parte l’autenticità della sua
esperienza; nell’ agiografo la santa è infatti catturata per un programma che
non è più il suo e la sua parola è offuscata dai toni retorici”(ivi,
pag. 193).
Ciò è condivisibile solo in parte, ed è vero per Vanna come per tutte
le sue correligionarie che hanno affidato alla testimonianza altrui il portato
della loro esperienza.
L’intento di Giacomo Scalza è indubbiamente
encomiastico nei confronti di Vanna, della quale narra ed esalta le doti umane
ed i doni dello spirito, così come è didascalico nei confronti dei devoti alla
cui attenta lettura e meditazione la Legenda è destinata.
D’altro canto, la stessa ineffabilità dell’esperienza mistica, più
volte dichiarata da coloro che l’hanno praticata, costituisce un ostacolo
nella comprensione dell’agiografo e nella successiva rielaborazione testuale.
Di fronte a scritti prodotti anche in ambiente ecclesiastico, da parte di
curatori d’anime e padri spirituali, è dunque opportuno disporre
l’attenzione ad un’analisi critica volta a discernere gli aspetti puramente
descrittivi dai più approfonditi tentativi interpretativi, volti ad dar conto
dell’itinerario spirituale tracciato e percorso dalle mistiche.
Il testo della Legenda risulta dunque composto dal
Domenicano Giacomo Scalza, priore del Convento orvietano nel 1323, a diciassette
anni dalla morte di Vanna: si basa su testimonianze indirette, raccolte dal
colto predicatore - già lettore a Perugia ed a Santa Maria sopra Minerva a Roma
- e rielaborate al fine di dare ragione della santità di vita della Terziaria,
proponendola alla devozione ed alla edificazione dei concittadini.
Già in vita Vanna aveva costituito per gli orvietani un punto di
riferimento spirituale, mantenendo intensi legami con la comunità di cui si
sentiva come parte integrante.
Forse, la comunità preferì in vita ed in morte considerarla come guida.
Vanna da Orvieto, così come la gran parte delle donne che aderiscono al
Terz’Ordine della Penitenza di San Domenico, prosegue la sua attività di
lavoro dopo aver pronunciato i voti.
Condivide la vita dei familiari, pur mantenendosi con il suo lavoro, vanta
un’ampia cerchia di amicizie vivificate dall’attività di ricamatrice e
dall’impegno religioso, partecipa alle vicende politiche cittadine.
La sua è una presenza attiva, densa di significato nella complessa rete
di rapporti che s’infittisce entro la cerchia delle mura della comunità
medievale.
La città di Orvieto, dalle remote origini etrusche, vive una stagione di
notevole sviluppo durante l’età comunale, nella quale si afferma un governo
misto costituito dai membri delle Arti e delle Consorterie.
L’incremento demografico determina l’espansione dell’insediamento
urbano: inaugura del pari un travagliato periodo di contese per il dominio dei
castelli disseminati nel territorio circostante, mentre la società civile è
segnata dall’antagonismo tra i casati dei Monaldeschi e dei Filippeschi, tra
le fazioni dei “Beffati” e dei “Malcorini”.
Un’insegna delle Corporazioni, conservata presso il Museo dell’Opera
del Duomo ad Orvieto, enumera ben ventinove Arti “ obligate a portar il cerio il giorno del Assunta e d. corpo di Cristo
alla reverenda fabrica restaurata”. Tra tali Arti vengono indicate
l’Arte dei Dottori e Procuratori, l’Arte della Lana, indicata con il n° 1,
l’Arte dei Merciai (n°2), l’Arte degli Speziali (n°3), l’Arte dei Fabbri
(n°4), l’Arte dei Sarti (n°5), l’Arte dei Calzolai (n°6), l’Arte dei
Falegnami (n°7), l’Arte degli Scalpellini (n°8), l’Arte dei Muratori (n°9),
l’Arte dei Funari (n° 10), l’Arte degli Orafi (n° 11), l’Arte dei
Tessitori (n°12), l’Arte dei Barbieri (n°13), l’Arte dei Pellicciai (n°14),
l’Arte dei Guantai (n° 15), l’Arte dei Bifolci (n° 16), l’Arte dei
“Pizicaroli” (n°17), l’Arte degli Ortolani (n° 18), l’Arte degli
Acquavitai (n° 19), l’Arte dei Vasari (n° 20), l’Arte dei Mugnai (n° 21),
l’Arte dei Fornaciai (n° 22), l’Arte dei Tintori (n° 23), l’Arte degli
Armaioli (n° 24), l’Arte dei Falconieri (n° 25), l’Arte dei Panettieri (n°
26), l’Arte dei Linaioli (n° 27), l’Arte dei Macellari (n° 28) ed infine
l’Arte dei Vinari (n° 29).
Pur non essendo annoverata tra queste Arti, l’attività professionale
svolta da Vanna da Orvieto è tra le più apprezzate dalla società comunale,
che all’opera assidua e raffinata delle ricamatrici fa volentieri ricorso per
impreziosire le vesti delle dame e le tavole degli altari, accomunando talvolta
sacro e profano nella ricerca del lusso, ad onta delle leggi suntuarie che si
fanno man mano più rigorose e dettagliate.
Sta di fatto che l’estrema femminilizzazione dell’arte del ricamo ne
fa un’attività secondaria, da cui si ricava per lo più un salario
integrativo.
Le ricamatrici, come più in generale le donne che possiedono un mestiere,
trasmettono conoscenze e competenze in maniera informale.
I loro laboratori, annessi all’abitazione così come più tardi saranno
parte integrante dei monasteri, non partecipano di una caratteristica saliente,
tipica della bottega: non prevedono la suddivisione dei ruoli tra “maestre”
ed “apprendiste”, pur costituendo luoghi di elaborazione e trasmissione di
sapere e raggiungendo frequentemente apprezzabile fama, in specie nel ricamo in
oro, che assomma alla preziosità del filato la delicatezza del gusto e la
perfetta realizzazione del manufatto.
La modesta visibilità sociale non sottrae certo il laboratorio delle
ricamatrici al fatto di essere centro di aggregazione e di scambio
d’esperienza.
Proprio sotto questo profilo, anzi, essere svincolate da specifiche norme
statutarie può costituire per queste anonime artiste del ricamo un’opportunità
ulteriore di autonomia e di reciprocità.
Di certo, l’attività di lavoro ha costituito per Vanna da Orvieto una
risorsa per facilitare i contatti con le concittadine, un’occasione di
conoscenza e di confronto con altre donne meglio disposte a comunicare, a
confidare sogni e crucci, a chiedere consiglio e conforto ad una di loro, ben
disposta dal canto suo a dare a ciascuna ciò di cui avesse bisogno: attenzione,
ascolto, partecipazione, esempio, amicizia, fede.
Il carisma domenicano, “parlare
con Dio, parlare di Dio”, fu certo messo in pratica da Vanna proprio
mediante lo svolgimento assiduo della sua attività professionale, accostando
con spontanea disponibilità nobili committenti, laici ed ecclesiastici, ed
umili popolane, come lei lavoratrici.
Vanna da Orvieto ha il dono della facondia, avvalendosi di una
comunicativa schietta e sensibile, delicata e suadente, ma straordinariamente
parla attraverso tutta sè stessa, modellando il suo corpo a rappresentare ed
esprimere il senso più profondo dei messaggi ineffabili della fede.
Così come le chiese degli Ordini Mendicanti offrono le loro vaste pareti
ad accogliere i cicli narrativi della Biblia
pauperum, che conferma per imagines la parola dei predicatori, Vanna da
Orvieto offre tutta sé stessa ad un impegno omiletico altrimenti negato: in lei
la parola si fa gesto, immagine adombrata del Verbo divino fattosi carne, si
plasma a significare, si dispone ad una comunicazione pervasiva e totalizzante
della Verità.
Il suo corpo florido, nonostante le pratiche di disciplinamento e di
digiuno, si flette plasticamente a rappresentare la Passione del Cristo, in una imitatio
tanto più intensa, in quanto condivisa
intimamente e visibilmente.
La Terziaria Domenicana ripercorre dunque le tappe della vicenda terrena
di Cristo, come testimonia la Legenda
del priore del Convento orvietano, fra Giacomo Scalza: “(...) fin
dal momento in cui vestì l’abito , quotidianamente dall’alba all’ ora
sesta o alla nona rimaneva immobile, concentrandosi nella preghiera. Si dedicava
con tanto fervore alla meditazione ed all’orazione, che non poteva sopportare
il peso e l’ingombro delle vesti. Pertanto, volendo giungere al culmine della
contemplazione e della preghiera, entrando nella celletta in cui era solita
pregare, che aveva ricavato nel solaio della casa in cui viveva, si toglieva le
vesti, tanto d’estate quanto d’inverno, quando pure il gelo fiaccava anche
le cose più resistenti, e, vestita di un semplice sacco, rimaneva là fissa ed
immobile. A tal punto era intenso il calore dell’amore divino che si rivelava
nella contemplazione nell’animo di questa vergine, che doveva avere sempre con
se’ un panno pronto ad asciugare il sudore che abbondante grondava di continuo
dal suo corpo. E non c’è da stupirsi: infatti ardeva interiormente del fuoco
divino, e nulla poteva raffreddare la superficie del suo corpo. Anzi, per
l’assiduità nella contemplazione e nella meditazione, accadeva che se le era
narrato qualche episodio della Passione di Cristo o di qualche santo, subito era
colta dall’estasi ed elevata in spirito”(2).
Il testo della Legenda ci
presenta in filigrana una figura complessa, dotata di un’intensa vita
interiore, che viene condotta in parallelo con le quotidiane azioni e mansioni
della vita sociale.
Il momento cruciale, che segna il passaggio da un ruolo all’altro, è
costituito dall’atto della vestizione: dopo aver pronunciato i voti, Vanna
intraprende la sua esperienza di contemplazione e di preghiera ritagliando per
essa un tempo ( le ore del primo mattino) ed uno spazio ( il solaio della sua
dimora, condivisa con i familiari).
L’intensità di tale esperienza fa sì che non sopporti la costrizione
delle vesti. Entrando dunque nella “cella” di questo insolito romitorio
domestico, Vanna si spoglia dei suoi abiti e si copre di un’umile tela di
sacco.
E’ opportuno segnalare, al riguardo, che le seguaci di Sant’Agnese da
Montepulciano furono dette nella biografia stilata da padre Raimondo da Capua
“sorores de sacco”, per la sobrietà
delle vesti e per l’umiltà dei loro portamenti.
E’ dunque una scelta condivisa, segno di povertà autentica e di
schiettezza nei costumi, quella che troviamo confermata dalla Legenda
di Vanna da Orvieto.
Lei, che conosce e produce stoffe impreziosite da sontuosi ricami, si
veste del più povero degli abiti per essere disposta al dialogo della
preghiera, che le provoca un sudore inarrestabile, determinato dall’intensità
dell’amore divino.
La semplice evocazione della Passione di Cristo o del martirio dei Santi
determinano in Vanna le forme sublimi dell’estasi.
Il luogo in cui Vanna si isola per meglio dedicarsi alla preghiera ed alla
contemplazione è ritagliato dallo spazio domestico: non più l’ appendice
della chiesa, come nell’esperienza delle “murate”, non ancora la cella del
monastero, come sarà per le Terziarie claustrali.
La scelta di ritirarsi il solaio è certo determinata da un’esigenza di
riserbo, di silenzio da parte della donna che vuole meditare sui misteri,
condividere pienamente la sofferenza della Passione e l’esperienza del
colloquio mistico con il Cristo: di fatto, il solaio è il luogo più elevato
della casa, il più vicino al cielo - in specie, nelle svettanti case della città
medievale, che di frequente assumono le dimensioni e le funzioni di torri - e,
ad un tempo, è il luogo delle cianfrusaglie, degli scarti della vita domestica.
Non diversamente da ciò, la società medievale stimava le donne che
condividevano la sorte di Vanna, orfana accolta ed allevata per pietà in casa
d’altri, nubile non destinata al matrimonio, priva dunque di uno status che la
legittimasse nella vita secolare, benché il duplice lavoro di produzione e di
cura ne assicurasse la piena autonomia, almeno sul piano economico.
Attraverso la sua scelta di vita religiosa, Vanna si riscatta ed afferma
la propria dignità di persona, fatta ad immagine e somiglianza di Dio.
Proprio tale corrispondenza viene ulteriormente approfondita nelle
meditazioni, che molte mistiche descrivono e definiscono come “dolori
mentali”, ribadita nell’ imitatio
Christi che assume per Vanna da Orvieto centralità nell’esperienza
spirituale.
L’isolamento che essa ricerca nel solaio di casa è rispettato solo
parzialmente dai familiari e dalle amiche, in cui prevalgono di frequente
sentimenti di curiosa sollecitudine: chi di nascosto la osserva, mentre si
concentra in preghiera e si scioglie nella tensione dell’incontro mistico,
resta colpito dall’eccezionalità dell’evento ed è persuaso sempre più a
credere nelle sue parole ed a prendere da lei esempio.
Dunque davvero Vanna affida alla gestualità, alla fisicità della sua
natura il suo messaggio di fede,
altrimenti ineffabile.
Altre volte, si dedica in compagnia delle amiche - alcune delle quali ne
condividono l’adesione al Terz’Ordine - a letture edificanti riguardo alla
vita dei martiri e dei santi dei primi secoli: ascoltando la narrazione delle passiones
altomedievali, Vanna perde cognizione di sé stessa, s’identifica nei
protagonisti delle drammatiche vicende riproducendo plasticamente i supplizi ed
i tormenti, condividendo la sofferenza del martirio.
Così ancora la Legenda descrive
alcuni episodi salienti: “ Affinché non
le mancassero le corone dei martiri, quando le si narrava come un martire era
morto, concentrata la mente nella meditazione della passione di quello, rimaneva
insensibile ed immobile flettendo il corpo ad assumere le posizioni relative ai
tormenti a cui il santo era stato sottoposto.
Così, avendo intrapreso la
meditazione sulla passione dei e di preghiera ritagliando per essa un tempo ( le
ore del primo mattino) ed uno spazio ( il solaio della sua dimora, condivisa con
i familiari).
L’intensità di tale
esperienza fa sì che non sopporti la costrizione delle vesti. Entrando dunque
nella “cella” di questo insolito romitorio domestico, Vanna si spoglia dei
suoi abiti e si copre di un’umile tela di sacco".
E’ opportuno segnalare, al
riguardo, che le seguaci di Sant’Agnese da Montepulciano furono dette nella
biografia stilata da padre Raimondo da Capua “sorores de sacco”, per la
sobrietà delle vesti e per l’umiltà dei loro portamenti.
E’ dunque una scelta
condivisa, segno di povertà autentica e di schiettezza nei costumi,
quella che troviamo confermata dalla Legenda di Vanna da Orvieto.
Lei, che conosce ezzamenti e le
loro punture, ronzavano a schiere davanti ai suoi occhi, che rimanevano sempre
semiaperti, immobili senza il più lieve battito di ciglia, proprio come gli
occhi di un cadavere.
Con tanta devozione aveva
impresse nell’anima la passione e la crocifissione di Nostro Signore, che non
solo quando si dedicava alla meditazione, ma anche quando semplicemente ne
sentiva parlare si scioglieva tutta in lacrime, per l’amara sorte del suo
diletto. E per amor suo portava perennemente sul suo corpo la croce, come
mortificazione della carne. In occasione del Venerdì Santo, quando la Chiesa
ricorda e rappresenta per sollecitare la devozione dei fedeli la passione di
Cristo, che per la nostra misera condizione il Figlio di Dio sopportò
inebriata, per così dire, dell’amore per la nostra salvezza, mentre intenta
alla meditazione rifletteva sulla crudelissima passione del Cristo,on lo spirito
assorto nell’amarezza, persi i sensi, si dispose con le membra tese in forma
di croce, impallidì e rimase insensibile, in quello stesso modo nel quale le
membra dei Signore furono adattate all’oltraggio della crocifissione.
In questa penosa postura del
corpo, i presenti potevano udire il crocchiare delle ossa, come se si
scollassero dalle giunture. Sovrapposti i piedi l’uno all’altro,
estese le altre membra, rimaneva fissa in una tale immobilità che gli
arti si sarebbero potuti incidere o rompere, piuttosto che flettere.
In questa condizione, provava
dolori lancinanti accompagnati da un’estrema debolezza. E così, crocifissa
come Cristo, rimaneva fino al far della sera.
Ciò le accadde , nello stesso
giorno del Venerdì Santo, per dieci anni, gli ultimi della sua vita; ad
eccezione di una volta in cui, sofferente per una forte febbre, lo stesso Dio
volle risparmiarla.
Spesso anche durante il Sabato
Santo ed il giorno della Resurrezione del Signore, meditando sulla gloria di
Cristo risorto, d’improvviso fu rapita dall’estasi così che non vi fosse
dubbio alcuno che condividesse per dono del Salvatore la sua stessa gloria.
Allora appariva con il volto e
gli occhi luminosi e sfolgoranti.
Ancora una volta, nel giorno
dell’Assunzione della beatissima Maria madre di Dio, mentre insieme con altri
stava ascoltando la lettura di quell’evento e meditava con grande gioia nel
cuore, cominciò poco a poco ad estraniarsi e ad elevarsi corporalmente da
terra.
Stava così tesa in aria, con
il corpo sollevato per un cubito, con le mani rivolte al cielo in cenno di
preghiera. Durò a lungo tale elevazione in spirito; poi,con la stessa levità
con la quale si era sollevato, il suo corpo tornò a terra.
Anche in occasione della festa
di Santa Caterina vergine, mentre gliene veniva narrata la storia volgendo
l’animo e la mente alla letizia, proruppe in queste parole di devozione: -
Levati, beatissima Caterina! - pronunciate le quali, subito dimentica del peso
del corpo, si sollevò alquanto da terra.
Languendo per amore del Cristo
ed inebriata di santo ardore, diceva turbata: - Oh,quanto è meraviglioso ed
insieme angosciante che io non possa parlare del mio diletto! -
Diceva così perché non appena
cominciava a parlare del Cristo, o ad ascoltare chi ne parlasse, la sua mente
era rapita dall’estasi. Nella contemplazione quotidiana era poi ristorata
nell’anima da tanta dolcezza, che si preoccupava assai poco di nutrirsi. Era
solita anzi dire, quasi scherzando: - Forse non s’infastidisce chi mangia un
cibo sgradito?-”(3).
La descrizione che il biografo da delle visioni estatiche esperite da
Vanna è estremamente puntuale, benché egli non ne sia testimone diretto: è
dunque evidente che padre Giacomo Scalza, durante il suo priorato orvietano, si
sia avvalso delle memorie dirette di coloro che conobbero e praticarono la
mistica domenicana, serbandone un ricordo affettuoso e devoto.
Alcune osservazioni appaiono particolarmente acute e
sensibili: in primo luogo, va rimarcata la consapevolezza, da parte di Vanna,
dell’ineffabilità dell’esperienza mistica, che costituisce del pari un
privilegio ed un vincolo, condannando al
silenzio, all’impossibilità della condivisione.
Da ciò può derivare la conferma rispetto all’intuizione di partenza,
che la rappresentazione gestuale costituisca per Vanna da Orvieto una modalità
di espressione alternativa ed integrativa rispetto alla verbalizzazione
dell’esperienza.
Questa, infatti, non è semplice rappresentazione mimica, duttile abilità
di flettere il corpo a significare negli atti le vicende delle vite dei santi
che più suggestionano alla lettura, quanto piuttosto la puntuale rivisitazione,
la condivisione totale dell’esperienza da cui nulla è sottratto, nella è
affidato ad un’attitudine, ad una pratica interpretativa.
Vanna da Orvieto agisce ben al di là dei contemporanei, anonimi estensori
di laude destinate alla rappresentazione: il suo intento non è narrativo, ma
omiletico, non comporta il coinvolgimento di un pubblico né segna le date del
calendario liturgico, ma ripercorre un cammino aspro e travagliato lungo la via
di perfezione attraverso l’autentica mortificazione della carne, l’intimo
rinnovamento della passione di Cristo e dei testimoni della sua Chiesa.
Per questo il suo corpo si flette, modula nel gesto e negli atti forme e
figure in cui i familiari, attoniti, riconoscono le tappe della via Crucis, il
martirio dei santi.
La prima espressione lirica che conferisce al volgare dignità letteraria
è la poesia religiosa, che fiorisce nell’Italia centrale fin dal XII secolo e
si diffonde soprattutto in ambiente francescano: si pensi all’esempio dello
stesso “giullare di Dio”, san Francesco, o delle molteplici corde toccate da
Jacopone da Todi, che esprime la più alta tensione drammatica del medioevo
cristiano, ma canta con pari intensità “el
jubelo del core ch’esce in voce”.
Qui ci troviamo di fronte ad un fenomeno culturale e spirituale
diversamente orientato.
Le novantatre laude composte da Jacopone, accanto al testo latino dello Stabat
Mater, sono il portato di una scelta ideologica precisa, compiuta da un uomo
autorevole - sia pur scomodo - padrone di una cultura egemone che si presta a
comunicare il frutto del proprio sentimento religioso ad una comunità che lo
ritiene fededegno - o che lo teme, ne riconosce il prestigio e lo condanna
quando la sua parola si fa troppo aspra, la sua reprimenda troppo dura.
La figura di Jacopone appare dunque speculare rispetto a quella di Vanna
da Orvieto: l’uno uomo, l’altra donna - con quanto la mentalità del tempo
carica di significato i due distinti ruoli in natura e nella società civile -
l’uno francescano, l’altra domenicana, l’uno dotto ed aristocratico,
l’altra umile operaia incolta, l’uno in grado di dichiarare pubblicamente il
suo pensiero, l’altra destinata al silenzio.
Allora è la risorsa della corporeità, della fisicità propria della
natura femminile ad essere valorizzata da Vanna, secondo uno schema di
comportamento analogo alle consuetudini proprie della società dell’epoca dei
comuni, che tendono a reificare le donne, privandole di autonomia giuridica,
subordinandole al controllo ed al dominio dei familiari, esaurendo ogni loro
scopo di vita nelle capacità riproduttive legate proprio alla sfera del corpo.
La fecondità che Vanna dimostra è indubbiamente tutta spirituale: essa
genera fede, carità, speranza, attraverso le forme plastiche assunte
nell’estasi.
Il suo fisico fiorente, descritto dal biografo come “pingu(e) et corpulent(um) et nitid(um)”, è ben diverso dal “Corpo
enfracedato” che si oppone con la sua gravezza all’anima di Jacopone.
L’esperienza mistica di Vanna fa anzi sì che l’anima si diffonda in
intima unione con ogni fibra del corpo, riducendosi ad una unità che travalica
le stesse dicotomie della creazione: il “puro patire” assolutizza
l’essere, portando all’unione con Dio, rendendo teandrica la stessa
ierofania.
Vanna dunque supera di slancio l’esigenza della parola, intesa come
mezzo di comunicazione e di condivisione del messaggio divino, in lei affidato
all’intensità del gesto.
Il suo corpo duttile non è dunque condannato
ad un “etterno sciamure / l’ossa
contro le vene / nervi contra ionture / sciordenati onne amure / de lo primero
stato”.
Anche le sue giunture si disarticolano, il suo cuore rallenta i battiti,
mentre il respiro cessa addirittura.
Eppure in lei ciò si manifesta mediante una sofferenza che non lede il
corpo, un’astinenza che non lo consuma, per dieci lunghi anni durante i quali
Vanna partecipa intimamente alla passione ed alla gloria di Cristo.
Lo stesso impedimento della parola è costituito da una sublimazione che
scardina l’interdetto paolino, da cui deriva la condanna delle donne al
silenzio: Vanna non può parlare perché solo pronunciando il nome di Cristo
avvia quel processo di annichilamento che la dissolve nella contemplazione e la
unisce a Lui nella forma più alta dell’ imitatio
Christi.
Dunque, per Vanna da Orvieto davvero “amor
(est) cognitio”, ma la conoscenza di cui è partecipe travalica i
limiti dell’intelletto, non meno del dantesco “indiamento”.
L’unica modalità da lei posseduta e praticata è la trasmissione
corporea, per imitazione, delle fasi attraverso le quali giunge sperimentando la
sofferenza fisica e l’angoscia dell’anima alla gloria della contemplazione.
Al di là delle specifiche condizioni e delle singole vicende spirituali
ed umane, va notato che Vanna condivide, sia pur nella marginalità della sua
condizione, il clima culturale del suo tempo:
l’anno 1306, data della sua nascita in cielo, segna del pari la morte di
Jacopone da Todi, l’avvio della stesura della Commedia dantesca.
Si tratta dunque di un momento cruciale nella storia della civiltà
medievale, a cui donne come Vanna da Orvieto accedono attraverso la via della
mistica portando un loro specifico, inestimabile contributo.
Dalla Legenda padre Giovanni
Pozzi e Claudio Leonardi estrapolano per l’antologia delle Scrittrici Mistiche Italiane ancora un brano di particolare intensità,
che da ragione della singolare interazione tra corporeità e spiritualità messa
in atto da Vanna: “Ancora non avendo
potuto una volta recarsi in chiesa per una malattia di cui soffriva,
comunicandosi con gli altri nella ricorrenza del Natale di Gesù, come è in uso
tra i fedeli, ed in particolare nel suo Ordine, nel giorno successivo alla festa
risplendette su di lei una luce celestiale,straordinariamente intensa e
splendida. E mentre la contemplava con grande attenzione e diletto, ecco venir
fuori dalla luce un’ostia candidissima, che entrò nella sua bocca. Lei subito
se ne nutrì.
E la bontà divina stessa, che
è luce vera, dichiara: - Io sono la luce del mondo - non poteva tollerare che
questa vergine, che si era scelta come vaso d’elezione e di grazia, rimanesse
priva in un tale giorno del sacramento del suo corpo, dal momento che non aveva
potuto comunicarsi con gli altri” (4).
L’argomento topico della comunione mistica, ricorrente nelle vite sante
delle moniales, viene sviluppato dal dotto domenicano estensore del testo
esaltando la corrispondenza tra l’ostia divina e la luce, secondo un
simbolismo già caro ad Alberto Magno ed al suo discepolo Tommaso d’Aquino.
Il lumen infusum nella fede si
riverbera sulla ragione, strumento atto a procedere teoreticamente nel campo
filosofico, mentre la fede determina un processo intellettivo /affettivo,
implicando la totalità dell’esistenza umana nell’amore di Dio.
Inoltre, proprio nella Metaphysica
di Alberto Magno individuiamo la chiave interpretativa del quo est, principio per cui l’esperienza di Vanna sussiste: “La
materia accompagna tutto ciò che è una data cosa determinata, poiché essa è
il principio che conferisce a tale cosa la sua individualità; essa accompagna
tutto ciò che si mostra come una cosa determinata, poiché essa nelle sostanze
sensibili, è determinata dalla quantità e dalla qualità sensibili. Né
l’una né l’altra si trovano nella forma; se entrambe s’incontrano in una
sostanza composta di materia e di forma, esse vi si trovano a causa della
materia”(Metaphysica, l. XI,
I,7).
Ecco dunque che la vicenda di Vanna s’inscrive e si ricollega ad un
filone speculativo, filosofico e teologico, in cui l’Ordine Domenicano si
fonda e si riconosce.
La quidditas di San Tommaso è
sottesa alla spiegazione che fra Giacomo Scalza da della mirabile astinenza di
Vanna, il cui corpo resta florido e pingue nonostante il prolungato digiuno: “E
non reputo che debba essere trascurato il fatto che pur mangiando e bevendo
assai parcamente, fosse pingue e florida e di bell’incarnato, tanto che se
l’avesse vista qualcuno che ne ignorava le abitudini, avrebbe ritenuto che
facesse bagni frequenti e dedicasse molte cure al suo corpo. Ne’ c’è da
meravigliarsi, poiché in verità godeva delle gioie non del corpo, ma
dell’anima, che in abbondanza la dilettavano.
Infatti,
così come con schiettezza essa stessa lo ammetteva, quando nella
contemplazione raggiungeva l’acme concentrandosi nei misteri delle cose
celesti ed in Dio, che amava con tutto il cuore, si nutriva quotidianamente
nell’anima del cibo celeste dal sapore del miele, che le riempiva il corpo fin
sulle labbra. E così, quando discendeva dalle vette della contemplazione
mistica, si mostrava con la faccia infiammata e rubizza, tanto che nessuno
poteva dubitare che ritornasse dalla fornace di quel fuoco divino, il cui camino
è nella Gerusalemme celeste.
E la verità di ciò è inoltre
attestata dal fatto che più volte fu visto un fuoco sul tetto della casa in cui
la vergine abitava. E quando fu interrogata riguardo a tale apparizione da una
sua amica, rispose semplicemente, con voce chiara e sicura: - E’ Dio. Infatti,
come dice il profeta, non è forse il nostro Dio come un fuoco che consuma? -”(5).
La natura umana è glorificata nella corporeità di Vanna, nutrita dalla
contemplazione, colmata dalla grazia, cibo dell’anima di cui è beneficata fin
nelle membra.
Ad ulteriore manifestazione sta la vampa che le illumina il volto, quando
s’allontana dalla fornace ardente della contemplazione di Dio, di cui resta
traccia nel fuoco che illumina la notte, squarciando l’oscurità dal tetto
della sua dimora.
Per altre figure esemplari della santità femminile domenicana ricorrerà
il segnale della luce infuocata che brilla sul tetto della loro abitazione. E’
così ad esempio per Colomba da Rieti, sulla cui casa risplende nell’estate
del 1488 un intenso lume, che ha però una duplice valenza: segnala infatti per
i suoi concittadini la presenza della carismatica ed assolve per lei al compito
di illuminare la strada che la condurrà a Perugia nel settembre di quello
stesso anno, ad assolvere fino in fondo alla sua missione di pace.
A chi le chiede ragione della “santa vampa”, Vanna risponde con
ineffabile letizia che si tratta di Dio, che è “un fuoco che consuma”.
Ancora una volta, l’umile artigiana semicolta, nutritasi
intellettualmente della lettura delle vite dei santi e delle omelie dei Padri
predicatori, dimostra di procedere nel suo cammino di fede in perfetta sintonia
con la filosofia del suo tempo, evocando nell’espressione l’altezza della
poesia dantesca.
Solo nel Paradiso Dante
arriverà a definire poeticamente la teoria della luce, come emanazione della
beatitudine.
Dante percepisce infatti “la novità
del suono e ‘l grande lume” come percezioni pertinenti a realtà celesti
che egli coglie in virtù del fatto di essere destinato a tornare nel suo “proprio
sito”, nel “sito decreto”, nell’Empireo che è l’agostiniano cealum caeli,
il luogo dell’anima.
Già nel Convivio, Dante aveva sostenuto: “Veramente, fuori di tutti questi (cieli mobili), li cattolici pongono lo cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o
vero luminoso; e pongono esso essere immobile per avere in sé, secondo ciascuna
parte, ciò che la sua materia vuole.
(...) Questo è lo soprano edificio
del mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di fuori dal quale nulla è (...).
Questa è quella magnificenza, de la quale parlò il Salmista, quando dice a
Dio: - Levata è la magnificenza tua sopra li cieli-”(Convivio,
II, III, 8-12).
Certo non siamo in grado di discernere dal testo della Legenda
quale sia il portato della tradizione orale, quale (e quanto) il risultato
dell’elaborazione del suo colto estensore: certo l’intento agiografico dello
Scalza è indubbio, ma d’altro canto resta inconfutabile il fatto che egli si
sia puntualmente documentato in ordine ai fatti mirabili della vita di Vanna da
Orvieto, tanto che proprio riguardo a questo passo del testo agiografico il
Pozzi ed il Leonardi concordano nell’individuazione di un registro formale
affabulatorio: “Nel passo pare quasi di
ascoltare un racconto della stessa Vanna, il ricordo delle speciali attenzioni
del Signore e del soccorso che ella ottiene nella vita fisica e spirituale”(Scrittrici
Mistiche Italiane, cit., p. 197).
Quando finalmente Vanna compie appieno l’esperienza del suo
“trasumanare”, riesce a significare attraverso il racconto ad un’ amica
correligionaria che l’assiste nel trapasso il senso più alto della sua
accoglienza in cielo: “Dunque un’altra
donna devota e religiosa che, quando
la santa si addormentò nel Signore, aveva saputo troppo tardi della sua
morte (Vanna era morta quasi a sera) si doleva fortemente perché non si era
trovata ad assisterla nel trapasso.
Dopo aver riflettuto a lungo su
ciò, si addormentò un poco. Ed allora la santa apparve alla dormiente, vestita
con l’abito che indossava in vita.
E colei che la vedeva in sogno
le chiese: - Oh Vanna, come va il tuo male agli intestini?- Disse così, perché
finché visse Vanna ebbe dolori addominali.
La santa rispose: - Sappi che
è stata posta fine a tutti i miei mali.- Detto questo, la visione svanì.
Ancora un’altra donna pia e
religiosa, che dopo aver detto le orazioni si era addormentata, ebbe una visione
celestiale, e la vide in questo modo: vedeva se’ stessa presso il sepolcro in
cui giaceva la santa. Volgendo lo sguardo intorno a se’, vide in cielo due
aquile che rimanevano fisse ed immobili. Meravigliandosi di ciò, guardò in
basso verso il tumulo dove riposava la santa, quand’ecco che le apparve la
beata, rivestita di luce, come le pareva, su un drappo splendente sorretto ai
quattro angoli da quattro frati dell’Ordine dei Predicatori, anch’essi
sfolgoranti, che tenevano ciascuno un angolo del drappo.
Uno di quei quattro frati, che
era ancora vivente, era un uomo di grande innocenza e santità di vita.
Allora la donna che contemplava
la visione, vedendo che la santa voleva librarsi in alto dov’erano le aquile,
le disse: - O Vanna, come potrai attraversare il solaio?- Diceva così, perché
il sepolcro della vergine è posto al di sotto di un solaio. E la santa rispose:
- Ma cosa dici? Non potrò dunque oltrepassare poche tavole, io che ho varcato i
nove cieli? -
Detto ciò, la santa fu
sollevata da coloro che tenevano il drappo. Allora, la donna che osservava gridò:
- Oh, Vanna! - E la santa rispose: - Non chiamarmi più Vanna, perché in cielo
non sono chiamata Vanna, ma Bellissima -.
A questo punto, la visione svanì”
(6).
Le amiche, le correligionarie sono dunque partecipi della sorte di Vanna,
accolta in cielo così mirabilmente.
Ancora una volta, colpiscono le corrispondenze con il testo della
Commedia, nel riferimento alle aquile, fisse ed immobili in alto, nel cielo.
Sul sepolcro di Vanna si eleva la visione di lei, sfolgorante, vestita di
luce.
Alle domande dell’amica, stupita e sollecita, turbata da dubbi troppo
umani, la Terziaria morta in odore di santità risponde con benevolenza, ma
attraverso le sue parole traspare la forza di una consapevolezza che non
appartiene più a questo mondo.
Così pure il nome che essa ebbe in vita è mutato, nella gloria dei
cieli: ora Vanna è, in eterno, Bellissima.
NOTE
(1) Acta Sanctorum, Praetermissi
del mese di Luglio: “Johanna, à
loco habitationis urbevetana dicta, Ordinis S. Dominici Tertiaria, titulo beatae
ornata est ab iis fere omnibus qui Vitae sanctorum ac Beatorum Ordinis istius
describunt: sufficiat nominasse Johannem a S.Maria Gallice, et Marchesium
Italice.
Ambrosius Taegius elogium satis
longum Latine composuit, atque ex ejus codicibus Mss. transumpsit Paperbrochius.
Memorantur ibi insignes ejus
virtutes, singulares favores eidem caelitus collati, prophetia & miracula;
verum propius explorare cupiens, num vero in ipsa Veteri urbe cultu atque ut
beata honoraretur, eo perrexit anno 1700, omnibusque accurate discussis, sic
propria manu scriptum reliquit, atque Marchesii elogio attexuit: Fui ego (C.J.)
anno 1700 Urbe-veteri; adivi ecclesiam PP. praedicatorum, ubi corpus B.Joannae
virginis, tertiae regulae S.Dominici, supra altare servatur, diciturque adhuc
integrum esse, ac dudum illic servatum fuisse. Habetur passim in illa urbe &
vocatur beata; nullum tamen habere videtur cultum ecclesiasticum; & Prior
monasterii ne quidem sciebat diem obitus ejus. Haec cum ita se habeant, non
video mihi magis licere Johannam illam inter Sanctos collocare, quam tot alias
& istius & aliorum Ordinum piissimas virgines, etiam ab egregiis
virtutibus & miraculis laudatissimas; ut & alibi notatum invenies. Si
cultus ipsi legitime permittatur, poterit de ea agi vel in hujus mensis, vel in
totius operis supplemento”
(2) G. SCALZA, Legenda: “(...)
ex quo habitum religionis assumpsit, quotidie de mane usque ad horam sextam vel
nonam in oratione immobilis persistebat. Cum tanto autem cordis fervore in
oratione et caelestium contemplatione pendebat, quod vestimenta ferre et
sustinere non posset. Quare cum ad orationis et contemplationis arcem volebat
ascendere, cellam, in qua orare solebat, quae in solario domus in qua habitabat
sita erat, ingrediens, sua omnia vestimenta se exuens, tam in aestate quam etiam
in hyemis aspera intemperie, quando solet etiam frigus sui rigore fortia quaeque
constringere, simplici sacco vestita, ibi fixa et immobilis permanebat.
Tantusque ivini amoris calor huius virginis surgebat in mente, quod totum corpus
eius in sudorem maximum resolvebatur, in tantum quod oportebat eam pannum semper
habere paratum, cuius frequenti officio corpus suum ab imminenti sudore
detergeret. Nec incongruum: quia cum igne divino succensa arderet interius,
nihil erat quod algorem posset inferre exterius. Et assiduitate continua ita
actum contemplationis haec virgo beata et spiritualis meditationis habitualiter
retinebat, quod si aliquando de amore vel passione Christi vel alicuius alterius
sancti ei verba narrata fuissent,
subito rapiebatur vel etiam elevabatur in spiritu”( cap. V).
(3) ivi: “Ut etiam coronae sibi
passionum martyrum non deessent, cum ei modus passionis cuiusvis martyris
diceretur, spiritu in meditatione passionis martyris occupato, corpus in modum
quo matryr tormentis fuerat subjurgatus, insensibile et immobile permanebat.
Nam cum in festo principum
apostolorum Petri et Pauli coepisset de eorum passionibus meditari, Petri primum
passionem ad memoriam revocata, subito rapta, mansit corpus eius immobile eo
modo quod fuit apostolus in cruce suspensus.
Pauli vero postea passione
pensata et eodem modo abstracta, corpus eius, qualiter quis ad decollandum
sternitur, apparuit, protenso collo prostratum.
In omnibus etiam istis animae
gratiis, ita corpus eius iacebat emortuum, ut si quis eam ignorans tunc eam
vidisset, mortuam reputasset. Erat siquidem sine motu et velut corpus mortuus
non respirans.
Vidisses etiam illa hora muscas,
maxime quando solent infestis volatibus crebrisque puncturis aliorum turbare
quietem, ita gregatim per oculos eius, quos tunc semiapertos semper quasi
tenebat, sine palpebrarum vel tenui motu licenter discurrere, ut non viventis
oculi viderentur cadaveris.
Passionem et crucem Jesu Domini
salvatoris tanta devotione suo infixerat animo, quam quandocumque non solum
cogitabat sed etiam aliquid audiebat, ad amaritudinem dilecti tota liquefiebat,
in lacrymis resoluta. Crucis enim mortificationem iugiter in corpore suo pro
patientis amore portabat. In sexta etiam feria Parasceven, in qua ad excitandam
devotionem fidelium sancta mater Ecclesia passionem Christi, quam pro nostra
miseria Dei filius amore salutis nostrae, ut ita loqui liceat, ebrius tulit
annualiter repraesentat, cum intenta meditatione pensaret Christi crudelissimam
passionem, spiritu in amaritudinem assorpto, sensuum proprio usu carens, corpus
in modum crucis extensum, rigidum et pallidum et insensibile permanebat, eo
scilicet modo, quo membra dominica crucis fuerant aptata ludibrio. In cuius
corporis extensione poenosa audiebant adstantes, si quos tunc adesse contingeret,
tam vehementem ossium crepitantium collisionem, ut videretur quod a suis
compagibus solverentur.
Pes vero alteri pedi suppositus
et alia membra extensa tanta immobilitate fixa manebant, quod membra singula
potuissent incidi vel frangi, potius quam moveri.
In membrorum autem huiusmodi
extensione, acerbitatem doloris et poenam cum debilitate non modicam sentiebat,
et sic cum Christo in cruce confixa, usque ad noctis initium permanebat. Hoc
autem eodem die sibi annis decem accidit, ultimis scilicet vitae suae;
praeterquam semel, cui tunc, quia vi febrium nimia laborabat, credimus, ipsum
Deum ei a tantis poenis et doloribus pepercisse.
Saepe etiam in sabbato sancto
et die resurrectionis dominicae, de resurgentis gloria meditans, subito in
tantam gloriam rapiebatur, ut nulli dubium esset, quin salvatoris dono ipsam
gloriam degustaret. Tunc etiam vultu perlucido et micantibus oculis apparebat.
Cum etiam semel, in die assumptionis beatissimae Dei genitricis Mariae, qualiter
assumpta fuerit (coram quoque) legeretur; et ipsa hoc magno cordis iubilo
cogitaret, coepit paulatim abstrahi et corpus eius a terra etiam elevari. Stabat
itaque in aere, a terra corpore elevato per cubitum, extensa, manibus in caelum
erectis quomodo solet quis orans in oratione prosterni.
Fuit itaque diu in tali spiritu
elevatione; eademque levitate corpus eius ad terras rediit qua in aere fuerat
elevatum.
In festo etiam b. Catharinae
virginis, cum eius sibi historia recitabatur, seipsam ad cordis gaudium et
mentis laetitiam excitans, in haec verba devotionis erupit: - Exurge beatissima Catharina -
post quae verba, subito molis corporeae gravitatis oblita, aliquandiu in aere
sublevatur. Amore quoque dilecti languens et fervore sancto ebria, cum quadam
mentis anxietate dicebat: - Oh! quam mirabile et angustiabile est hoc, quia de
dilecto meo loqui non possum! - Dicebat vero ista verba quia statim quod de
Christo loqui inciperet vel audiret, in extasim mentis illico ponebatur. In
contemplatione etiam quotidie tanta dulcedine reficiebatur in anima, ut modicum
postea de corporis cibo curaret. Solebat etiam, quasi solatiando dicere: - Nonne
fastidium ingeritur comedenti, quem cibum sumere non delectat?-”( capp.
V-VI).
(4) ivi: “Cum etiam semel propter
corporis infirmitatem, quam patiebatur, in festo natalis Domini ad ecclesiam
venire et cum aliis corpus Christi, ut moris est fidelium, maxime autem
religionis suae, sumere non potuisset, in crastino diei festi super eam lux
coelica emissa fulgeret, nimium admiranda. Cumque hanc attentius et
delectabilius intuetur, ecce hostia candidissima de luce egrediens, os eius
intravit, quam statim assumpsit.
Nec est passa divina bonitas,
quae lux vera est, ipsa dicente: - Ego sum lux mundi - hanc virginem, quam sibi
vas elegerat electionis gratiae, ut quia cum aliis communicare non potuerat,
tanto die corporis sui sacramento privari” (cap. VI).
(5) ivi: “Ne istud silentio
praetereundum existimo; quia cum modici valde cibi et potus esset, ita pinguis
et corpulenta et nitida erat, ut si quis eam non cognoscens vidisset,
credidisset eam balneorum usu et multis corporis deliciis abundare. Nec mirandum:
quoniam vere non corporis sed animae et coelestis suavitatis degustationum
frequentium deliciis affluebat. Nam (sicut ipsa simpliciter prodente compertum
est) quotidie, cum in contemplatione caelestium in Deum, quem toto diligebat
affectu, mentis aciem infixisset, quodam mellei saporis cibo caelesti
saginabatur in anima, qui totum corpus eius usque ad labia etiam exteriora
complebat. Cum etiam de iugis contemplationis monte descenderet, ita ignea facie
rubicundoque colore perfusa redibat,
ut nullus eam quin de fornace illius igni divini, cuius caminus in Hyerusalem
coelesti consistit, exiret, posset ambigere. Hoc autem vero esse, ignis, qui
noctis tempore a pluribus saepe visus super tectum domus, ubi sancta virgo
habitabat, apparuit, attestatur.. Cumque de dicti ignis apparitione sibi a
quadam sua domestica, familiariter quaereretur, alacri et constanti protinus
voce, - Deum esse - respondit. - Nonne enim Deus noster ignis consumens est,
Propheta testante?-”(cap. VI).
(6) ivi: “Quaedam etiam alia
religiosa et devota mulier, cum die, qua sancta dormivit in Domino, de sero
audisset, quod sancta obierat (licet in hora quasi vespertina migraverit),
vehementer dolebat, quod eius obitui non meruerat interesse. Cumque huiusmodi
cogitatui inhaeret, aliquantulum obdormivit.
Tunc sancta in habitu, quem
viva tenuerat, apparuit dormienti. Tunc quae visum videbat, dixit: - Oh Vanna,
quomodo est tibi de malo tuo illiaco? - Hoc autem dixit, quia sancta, dum adhuc
viveret, doloribus illiacis diu fuerat cruciata.
Sancta
respondit: - Finem esse impositum noveris, omnibus malis meis. -
Quo dicto, sancta ab oculis
eius evacuit.
Quaedam etiam alia devota et
religiosa mulier, dum post orationem corpus quieti dedisset, visionem divinitus
sibi ostensam conspicit in hunc modum.
Videbatur namque sibi, quod
sepulcro, ubi sancta iacet, adstaret. Cumque huc atque illuc oculorum aspectu
discurreret, in caelo respiciens videt in excelsis duas aquilas fixas et
immobiles permanere. Cum hoc miraretur, oculos suos deflectit ad tumulum, ubi
sancta quiescit: et ecce apparuit haec beatissima virgo luce, ut sibi videbatur,
induta, residens super quoddam pallium fulgidum, cuius quatuor angulos, fratres
quatuor Ordinis Praedicatorum praefulgidi tenebant, singuli singulos angulos
manibus retinentes.
Frater autem unus ex illis
quatuor, qui tunc temporis adhuc supererat, erat vir mirae innocentiae et vitae
sanctitate dotatus.
Tunc illa mulier visionem
inspiciens, videns sanctam elevari velle in caelum ad aquilas sursum stantes
dixit: - Oh Vanna, quomodo poteris pertransire solarium? - Hoc autem illa
dicebat, quia sepulcrum huius virginis sub quodam solario tabulato est situm.
Sancta respondit: - Quid est,
quod dicis? Numquid non paucas tabulas transire potero, quae novem caelos utique
pertransivi? -
Quo dicto, sancta continuo a
deferentibus elevatur.
Quod
attendens mulier, cum admiratione clamavit: - Oh Vanna! -
Sancta respondit: - Noli me
amodo Vannam vocare, quia in caelestibus Pulcherrima vocor ab omnibus, et non
Vanna -.
His visis, visio lapsa est”(cap. XI).
MARGHERITA DA CITTA’ DI CASTELLO ( 1287 - 1320)
La vicenda umana di Margherita da Città di Castello, la cieca della
Metola, s’inscrive in uno scenario più ampio e complesso, originandosi
all’interno di un contesto ancora legato alla società feudale, segnata da una
minorazione che la condanna alla marginalità.
La durezza dei tempi, l’instabilità politica, la disillusione inducono
i genitori naturali ad abbandonare la piccola cieca alla carità altrui: ciò
che sembra precludere ogni opportunità, ogni speranza per Margherita
costituisce in realtà le premesse per un riscatto morale e spirituale, che essa
compie e di cui benefica l’intera comunità che generosamente l’ha accolta.
Il testo dedicatole dagli Acta
Sanctorum, De B. Margarita Virgine
Tertii Ordinis S. Dominici Tiferni seu Civitate-Castelli, in Umbria (Aprilis,
II), ne contestualizza con grande precisione l’ambiente di nascita e di
vita, definendo le coordinate geografiche e proponendo validi spunti
interpretativi per quanto attiene agli aspetti storici e sociali che
interferiscono sulla sua vicenda:
“Presso le popolazioni umbre,
ricorrono due toponimi indicanti Tiferno, l’uno attualmente detto Sant’Amgelo
in Vado, l’altro Tiberino, detto da alcuni Castello di Santa Felicita, ad oggi
noto come Città di Castello: ai confini fra Umbria e Toscana, è attribuito
all’una o all’altra regione, come ad esempio da Silvio Antonino e dal
Platina; ma da questo ora più correttamente, essendo città pertinente al
Patrimonio di San Pietro, prossima al Ducato di Urbino (...).
Qui, privata della luce della
vista, visse la beata Margherita, essa stessa luce massima per la patria, per
l’insigne santità, l’integra natura del corpo incorrotto, la frequenza dei
miracoli che le meritarono il riconoscimento da parte della Chiesa”(1).
Il castello della Metola, dove Margherita nacque e visse i primi anni
dell’infanzia, segnava sul finire del XIII secolo i confini tra territori
soggetti a potentati in perenne conflitto tra loro.
Esso controllava i passi appenninici segnati dal corso del Metauro, in una
posizione strategicamente dominante e perciò stesso ambita tanto dalla vicina
Urbino, quanto dalla più distante Roma.
In esso il potere feudale era retaggio di un antico casato la cui nobiltà
risaliva ai tempi delle Crociate, legato alla proprietà fondiaria.
Da tale ceppo discende Margherita, figlia di Parisio, signore del luogo, e
della sua sposa Emilia: la tradizione non consegna alla storia altro che i nomi
di questi aristocratici di rango minore, colpiti fino negli affetti familiari
dalla violenza e dalla durezza dei tempi.
La condizione sociale dei signori della Metola voleva che essi avessero un
erede legittimo: la nascita di una bambina non fu dunque
apprezzata, per le difficoltà oggettive nel mantenere un dominio
contrastato da più parti.
Parisio ed Emilia poterono inoltre coltivare ben poco tempo l’illusione
che la piccola Margherita potesse un tempo essere ben collocata mediante un
matrimonio vantaggioso nello scacchiere delle alleanze politiche.
Pochi mesi dopo la sua nascita, infatti, i familiari si resero conto della
grave menomazione fisica che affliggeva la bambina.
Non le furono lesinate le
cure, venne tentato ogni mezzo perché Margherita potesse acquistare la vista,
recuperando una integrità fisica che sola avrebbe garantito la sopravvivenza a
lei ed al suo casato.
Gli stessi vassalli di Parisio, gli stessi contadini al servizio dei
castellani della Metola comprendevano che
la loro sorte dipendeva dalla salute della piccola cieca, o da un’ altra
eventuale gravidanza di Emilia, che tardava però a manifestarsi.
Persa ogni fiducia nelle cure mediche, ci si affidò dunque alla
preghiera.
Nella regione, segnata dalle memorie francescane della Verna, era venerata
la memoria di uno dei primi seguaci di San Francesco, Giacomo da Città di
Castello.
Numerosi erano coloro che avevano ricevuto grazie per sua intercessione.
Fu dunque stabilito di condurre la piccola cieca in pellegrinaggio alla
tomba di fra Giacomo, confidando nell’evento miracoloso.
Il viaggio fu compiuto nella primavera del 1293.
La bambina partì dal castello della Metola, in cui non sarebbe più
tornata, in compagnia dei genitori e del cappellano del borgo, scortata da
pochi, fidati servitori che assolvevano al duplice incarico di provvedere alle
esigenze materiali della piccola brigata e di proteggerla dagli agguati, non
infrequenti lungo gli impervi valichi dell’ Appennino.
Dopo una breve sosta presso l’abbazia di Scalocchio, il drappello dei
nobili pellegrini riprese la marcia diretto a Città di Castello, dove la
vicenda di Margherita avrebbe trovato la sua soluzione.
La pia visita al sepolcro del santo non ebbe gli esiti sperati: se i
genitori rimasero delusi dalla mancata guarigione della bambina, Margherita
accettò di buon grado la prova disponendosi a fare la volontà di Dio.
Nonostante i suoi sei anni, la bambina dimostra di possedere - come
attestano gli Acta Sanctorum - “tanta
pietas & animi vigor”, doni dello spirito che le consentono di
accettare con semplicità, non con sterile rassegnazione, una sorte amara, che
ne determina il definitivo distacco dalla famiglia.
Tanto diversamente da lei aveva agito Sibillina Biscossi quando, delusa
per la mancata guarigione, aveva inveito nei confronti di San Domenico, alla cui
intercessione aveva affidato la sua causa.
Così gli Acta Sanctorum narrano
il singolare episodio: “...accesa da un
forte desiderio di recuperare la vista, cominciò a rivolgere assidue preghiere
a San Domenico, scelto come proprio patrono, affinché intercedesse per lei in
virtù dei suoi meriti. Continuò così per giorni, settimane e mesi, finché
giunse la festa di San Domenico, giorno in cui infallibilmente aspettava di
riacquistare la vista. E poiché al Mattutino la vista non era tornata, con
grande fede credeva che avrebbe ottenuto la grazia durante il giorno: e poiché
neppure alla Terza era cambiato qualcosa,con fede immutata aspettò fino a sera;
infine, trascorso tutto il giorno, rendendosi conto di non avere ottenuto la
grazia, si rivolse pietosamente lamentandosi al suo patrono San Domenico: -
Dunque, San Domenico, mi hai
ingannata? Perché mi hai illuso, quando ti imploravo con tanto fervore per una
giusta causa? Restituiscimi le mie preghiere, le lodi ed ogni altra cosa che ti
ho offerto invano. -
Allora le apparve in una
visione lo stesso San Domenico, portandola via dalla sua cella verso la Chiesa
Cattedrale, non molto distante di là: e in breve le mostrò cose dapprima
orribili ed oscure, poi splendenti di una luce beata, tanto belle e piene di
letizia e fragranza mirabile che lei stessa, comprendendo la caducità delle
cose terrene, sentì affievolirsi e dissiparsi in sé il desiderio di recuperare
la vista: e così, rendendo grazie immense a Dio ed al suo Protettore San
Domenico si riconciliò - per così dire - con lui dal momento che era stata
esaudita in maniera tanto più vantaggiosa per lei”(2).
Se l’adolescenza di Sibillina si ribella alla cecità e richiede di
essere persuasa del segno di speciale grazia che essa di fatto rappresenta, la
fiduciosa semplicità dell’infanzia fa sì che Margherita sopporti “ipsa
detrimenta oculorum hilari patientia”, con gioiosa sopportazione la stessa
cecità, anche quando proprio il mancato miracolo induce i genitori ad affidarla
ad un monastero di Città di Castello.
Non è un abbandono, quello che Parisio ed Emilia compiono, ne’ può
definirsi un’oblazione nel senso più comune del termine: essi temono per la
sorte del castello, nelle dure circostanze che si apprestano per il piccolo
territorio di confine su cui esercitano il potere, oggetto di avide mire per la
sua particolare importanza strategica.
I genitori non si sentono più in grado di garantire non già cure ed
assistenza, ma addirittura l’incolumità fisica alla loro sfortunata bambina.
Per questo, come attestano gli Acta
Sanctorum, “per volontà di Dio, non
avendo ottenuto nulla, lasciano (la bambina) presso il monastero di S.Margherita
vergine”(3).
La presenza della bambina presso il monastero di Santa Margherita,
inizialmente bene accetta alle monache, fu ben presto motivo di scontento a
causa dell’eccessivo rigore con cui la piccola Margherita si adattava alle
dure norme della vita monastica, costituendo non un esempio, quanto piuttosto un
rimprovero vivente per troppe religiose dai costumi rilassati.
Margherita infatti “fin dai primi
anni aveva cominciato a mortificare il suo corpicino, che nessuna colpa aveva
macchiato, con digiuni ed atti di disciplinamento”(4).
Si era dunque disposta ad accettare la lontananza dagli affetti domestici
come forma di disciplinamento, e si era dedicata con dedizione alle forme più
dure della vita contemplativa; ma lo stesso monastero risulta inadatto ad
accoglierla, proprio per questa sua estrema adesione ad un modello di vita
ascetica troppo arduo per essere imposto ad una comunità religiosa.
Così la badessa del monastero si adopera a trovare una nuova collocazione
per questa piccola cieca, da cui le sono derivate tante preoccupazioni: “in
verità poiché trascorreva il tempo nella contemplazione e nella preghiera
mentre era inadatta ad altre occupazioni a causa della cecità, viene dimessa
dalle monache ed accolta in casa da messer Venturino e da sua moglie Grigia, una
pia famiglia”(5).
In casa dei due generosi coniugi, Margherita partecipa forse per la prima
volta delle piccole gioie delle vita familiare: accolta con semplicità e
schiettezza, condivide nella quotidianità le esperienze dei figli naturali di
madonna Grigia e messer Venturino, impara a giocare come i bambini della sua età,
come l’isolamento della vita alla Metola non le aveva consentito.
I genitori adottivi di Margherita sono assidui frequentatori della chiesa
di San Domenico e di buon grado assecondano la spontanea religiosità della
bambina che hanno accolto in casa, affidandone la formazione spirituale ai Padri
Predicatori.
La fragilità e l’imperfezione del corpo hanno forse prodotto in
Margherita l’affinamento dell’intuizione, per una sorta di virtù
compensativa che corrobora le buone doti d’intelletto e la sensibilità in lei
innata: sta di fatto che la bambina, pur non frequentando la scuola per evitare
il dileggio e l’emarginazione determinati dalla sua condizione, è in grado di
risentire la lezione ai fratelli adottivi e di correggerne gli errori, così
come dimostra di apprendere con facilità e ripetere con facondia gli
insegnamenti dei Padri Domenicani.
La vocazione alla vita religiosa matura in lei giorno per giorno,
assecondando la stessa indole di Margherita, votata all’introspezione ad alla
meditazione, incline alla carità, dedita alla mortificazione ed al digiuno.
La sua spontanea spiritualità trova la sua dimensione nelle forme e nei
modi dettati dalla Regola del Terz’Ordine della Penitenza di San Domenico, a
cui aderì entusiasticamente nel 1301, a soli quattordici anni.
La regola di fra Munio di Zamora le consentiva di continuare a vivere
nella casa adottiva che così affettuosamente l’aveva accolta, senza dovere di
necessità isolarsi dalla comunità civile.
Per Margherita, nata nell’austero, aristocratico isolamento del
castello, la vita cittadina si era aperta come uno scenario complesso,
squadernando al suo cospetto vizi e virtù, meriti e miserie che non potevano
sfuggire alle sue percezioni sottili, attente a cogliere quanto non si mostra di
solito a chi adopera gli occhi e crede di vedere.
La cieca della Metola ricapitola nella sua esistenza gli esiti del
feudalesimo ormai al tramonto, le sorti della civiltà comunale.
Ne testimonia le diverse tradizioni, ne soffre i condizionamenti, pagando
di persona il prezzo dell’allontanamento dagli affetti familiari, ma coglie
anche i frutti di una vita sociale dinamica e fluida, disposta al cambiamento,
aperta alla solidarietà.
Della civiltà feudale si sente erede, della civiltà comunale si sente
figlia: per questo non si rinchiude in una cella, per compiere le sue
meditazioni e le sue pratiche di disciplinamento, ma rimane in casa di madonna
Grigia per aprire le porte al prossimo, per rendere in carità il bene che ha
ricevuto.
Il Codice A “Cividale”, custodito presso la biblioteca del Convento
Domenicano di Bologna, dipinge a fosche tinte lo scenario familiare da cui la
vicenda di Margherita prende l’avvio, sottolineandone l’origine “notevole,
nobile non solo spiritualmente, ma socialmente”
(6) ma attribuendo ai genitori naturali Parisio ed Emilia sentimenti e
comportamenti carichi di disprezzo per la deformità, a tal punto che - dopo il
fallimento dell’ impetrazione di grazia - “i
suoi genitori sono afflitti dall’angoscia quando si accorgono che è
impossibile restituire la vista alla bambina e, presi dallo sconforto e dalla
vergogna la lasciano sola nel castello, priva di
ogni umano ausilio”(7).
Anche le monache della comunità religiosa di Santa Margherita vengono
tacciate di crudeltà ed inadempienza al voto di carità, tanto che un intero
capitolo della Legenda viene dedicato
ad illustrare Qualiter expelitur de monasterio cum multis contumeliis et
obprobriis: “Si presenta dunque,
indesiderato, il nemico sempre vigile e ingordo e semina la sua zizzania,
suscitando tra le monache invidia, superbia ed iracondia; perciò queste
monache, già invidiose della sua santità ed intolleranti dei suoi rimproveri,
pure umili e caritatevoli, dilaniano questa perla preziosa con offese molteplici
e con parole ingiuriose. Ma lei ammirevole e lieta pazientemente sopportava per
amore di Cristo, prendendosi poca cura di quei piccoli fastidi e desiderandone
anzi di maggiori. Ma le monache suddette si esacerbavano sempre più, al
confronto con la virtù della pazienza di cui lei riluceva; e poiché la natura
degli opposti è tale che essi non possono coesistere, la scacciarono con offese
ed ingiurie dal loro monastero, mentre lei rendeva grazie a Dio per queste cose”(8).
Al contrario, viene lodata la generosità di Venturino e Grigia, che
accolgono in casa loro la piccola cieca, scacciata da tutti: “Scacciata
dunque in questo vergognoso modo, viene accolta e nutrita da alcune persone
devote, secondo la Provvidenza divina, tra cui c’era un cittadino chiamato
Venturino, uomo onesto e devoto, e la moglie di costui, chiamata Grigia, che
concordemente per pietà offrirono a questa povera cieca Margherita una celletta
nella parte più alta della loro casa, perché vi potesse dormire e pregare
agevolmente. E benché Margherita avesse cominciato ad essere circondata da fama
di santità per i suoi miracoli, tuttavia questi sono stati trascurati, ma dai
fatti accaduti nella detta casa di Venturino traspare la santità
della sua vita”(9).
Il testo dell’agiografo tifernate, maturato con ogni probabilità in
ambiente canonico, rende manifesta la contrapposizione fra il mondo feudale,
dominato da particolarismi ed egoismi addirittura più forti dei sentimenti che
i genitori provano verso la loro prole, facile preda delle tentazioni
diaboliche, ed il mondo cittadino, animato dalla solidarietà e vitalizzato
dalla carità cristiana.
La stessa veemente reprimenda, rivolta alle religiose perché non hanno
saputo accogliere la piccola cieca che, “inflamata
caritate”, aveva rivolto loro l’invito a perseguire la strada di
perfezione senza incertezze ne’ blandizie può essere intesa come
l’espressione della religiosità nuova, proclamata e praticata dagli Ordini
Mendicanti, a fronte di una tradizione che aveva fatto di conventi e monasteri
degli autentici centri depositari di ricchezza e di potere.
Sta di fatto che Margherita veste l’abito della Penitenza ed intraprende
una straordinaria attività che si rende manifesta attraverso le forme della
profezia e del miracolo, di cui beneficiano i suoi concittadini.
La Legenda del Codice di
Cividale enumera vari miracoli, dal miracolo de igne extincto a quello de
sanitate oculi, e diffusamente descrive le modalità attraverso cui
Margherita praticava la levitazione, sperimentando - lei, cieca - la visione
sublime del Cristo incarnato.
Presi infatti i voti, Margherita da Città di Castello conduce per poco
meno di vent’anni una vita esemplare, dedita alla preghiera ed alla
meditazione, frequentando assiduamente la chiesa dei Padri Predicatori, offrendo
parole di conforto ed esempi di consolazione ai cittadini tifernati, ammirati
testimoni della sua santimonia.
Tanto la Legenda del Codice A,
quanto la tradizione confermata dagli Acta
Sanctorum concordano nella descrizione delle pratiche di disciplinamento a
cui Margherita costantemente era dedita senza discostarsi da un comune modello
agiografico, che sottolinea le virtù possedute in abbondanza dalla giovane
Terziaria, per cui si evidenzia che “nei
suoi costumi essenzialmente spiccò la virtù dell’obbedienza, della carità,
della pietà e della devozione”(10), o si commenta il senso profondo della
volontà di Dio: “ Appare coerente
rispetto alla bontà divina il fatto che il cielo accolga ciò che è rifiutato
dalla terra e dai suoi abitanti, come se appunto non avesse nulla di terreno”(11).
Margherita, secondo l’agiografo della Legenda,
è indotta fin da bambina all’isolamento, poichè “fin dall’infanzia viene destinata alla vita religiosa e le viene
assegnata dal padre una
celletta presso la chiesa del
castello
(precedentemente detto “Metule” o “Masse”, della Metola o di Massa
Trabaria) dove la fanciulla innocente e
pia viene rinchiusa affinché nen la veda chi viene al castello a causa della
sua malformazione. Così è indotta alla penitenza prima ancora di compiere
peccato alcuno: dunque, mentre prega Dio per i peccatori, ottiene ciò che
chiede per mezzo della penitenza”(12).
Dunque nella più tenera infanzia Margherita è reclusa per volere dei
genitori, affinché gli ospiti del castello non scoprano le sue deformità o
forse perché non sia turbata da curiosità malevole e morbose: sta di fatto che
“Negli anni dell’infanzia, essa gode
della penitenza e si sente prescelta da Dio, che per mezzo di lei contempla sé
stesso, irradiando della sua luce quella mente tenera”(13).
L’abitudine all’isolamento genera in Margherita una spontanea,
autentica capacità di introspezione, affinata dalle abilità residue che ne
sensibilizzano l’immaginazione, ne plasmano l’introspezione.
Tale convincimento non abbandona Margherita nelle sue vicissitudini in
monastero, per trovare infine in casa di Venturino e Grigia il luogo
dell’anima, lo spazio sereno e riservato in cui la meditazione diventa tappa
saliente nell’esperienza spirituale della giovane Terziaria.
In verità, Margherita non s’identifica nei comportamenti estremi della
cellana, non cerca di escludersi dalla società del secolo, ne’ viene da
questa stessa esclusa: a differenza della correligionaria Sibillina da Pavia,
che pure condivide con lei la triste vicenda della cecità, tende piuttosto a
stringere legami di solidarietà e di reciproca conforto con la famiglia
adottiva e con la gente del popolo.
Di simili legami resta una traccia evidente nelle biografie attraverso la
narrazione degli eventi miracolosi che si compiono intorno a lei, finché è in
vita, o per sua intercessione, dopo la morte avvenuta nel 1320.
La pratica della preghiera, l’intima consuetudine alla meditazione fanno
sì che Margherita percorra i gradi del cammino di perfezione, sperimentando le
gioie sublimi dell’estasi.
Straordinarie visioni percorrono la mente ed il cuore della giovane cieca,
che durante la Messa in chiesa vede il mistero dell’incarnazione di Cristo,
partecipando con intensità d’affetti alla nascita del Figlio di Dio.
L’anonimo estensore del Codice di Cividale commenta al riguardo: “Né
è da meravigliarsi, se colui che l’aveva privata della visione di tutte le
sose terrene voleva mostrarsi ora alla sua purezza, affinché la clemenza divina
risplendesse come in un vaso umile e disprezzato”(14).
Margherita da Città di Castello coltiva dunque con i mezzi della
meditazione e della preghiera la sua vocazione religiosa, nutre lo spirito delle
visioni celesti che la rendono partecipe dei misteri, “a
ciò stesso tendevano l’anima pura e la verginità, per cui si segnalava, come
confermano tutti i confessori a cui finché visse si rivolse”(15), ma con
altrettanta intensità partecipa alla vita quotidiana, condividendo con la
famiglia adottiva e con la famiglia religiosa il senso profondo delle sue
esperienze mistiche, “de quibus
frequentissime loquebatur”(ivi), offrendo conforto spirituale ed elargendo
consigli che spesso ebbero il senso ed il significato della profezia.
Mentre il Codice “A” Cividale omette riferimenti allo spirito
profetico di Margherita da Città di Castello, gli Acta
Sanctorum - che annoverano come fonti il manoscritto latino e la cosiddetta
“vita italica”, la volgarizzazione del testo, del tifernate Giulio Daddei -
fanno esplicita l’affermazione che la Terziaria Domenicana “futura
praenuntiat” e citano degli episodi a conferma di questa straordinaria
facoltà, che assimila la cieca della Metola alla correligionaria Sibillina da
Pavia, anch’essa cieca, ma dotata della precognizione e della grazia della
visione delle cose celesti.
Così narrano gli Acta Sanctorum:
“Prevedendo il futuro per la purezza
della sua anima, manifestò attraverso segni certi la precognizione degli
eventi. Infatti, mentre un certo cittadino Offreduccio e sua moglie Bice
pensavano di maritare l’unica figlia Cecca e non riuscivano a mandare in porto
nessun accordo, così come si usava fare, Margherita, che era in confidenza sia
con i genitori, sia con la figlia, disse: - Consentite che Cecca prenda
l’abito di San Domenico e viva in castità. Adirati, quelli le risposero: -
Smettila di cercare di convincerci a ciò: nostra figlia non vestirà mai
l’abito religioso. Allora Margherita, rivolgendosi alla madre della fanciulla,
dice: - Presto sia tua figlia, sia tu stessa, vestirete l’abito e lo porterete
fino alla
morte. E così accadde:
entrambe infatti, o per voto o ispirate da Dio, vestirono il venerabile abito e
lo portarono per tutta la vita”(16).
Un successivo episodio conferma per gli estensori della Vita
le doti profetiche di Margherita da Città di Castello: “Il
figlio del medesimo Offreduccio era stato chiamato in giudizio dal Magistrato
cittadino, e la famiglia temeva gravi provvedimenti. Per questa causa,
Margherita aveva percepito l’ansia e la preoccupazione della madre del
giovane. Così le disse: - Non temere, Bice, non dovrete risolvere con i denari
la questione, e ne’ tuo marito ne’ tuo figlio saranno incriminati.
Dopo pochi giorni, la sentenza
assolutoria del Magistrato confermò con i fatti la predizione di Margherita”(17).
Le precognizioni di Margherita da Città di Castello non assumono dunque
l’intensità delle rivelazioni di Santa Caterina da Siena ne’ di quella
generazione di mistiche le quali, alle soglie dell’età moderna, assumono
consapevolmente il ruolo di consigliere spirituali e politiche nei confronti dei
potenti del loro tempo, al fine altissimo di scongiurare calamità e scismi,
guerre e disgrazie: con la cieca della Metola ci troviamo ancora all’interno
della società del borgo, animata da modesti intenti ed agitata da ansie e
sollecitudini altrettanto modeste.
Il senso della profezia si risolve sul piano individuale o sul piano
familiare, domestico, implicando rapporti di contiguità, di corrispondenza con
la comunità locale, civile e religiosa.
Dunque il contesto storico è ancora fortemente segnato dalla linea ideale
- ed ideologica - delle mura, che scandiscono il limite tra città e campagna,
che dichiarano esse stesse un’appartenenza, che implicano un’identità.
Abbiamo già notato come Margherita da Città di Castello approdi a questa
dimensione da un’origine remota, distante nello spazio - la regione interna,
il territorio di confine - ed altrettanto distante nel tempo - la condizione
feudale, che tanto interferisce nella vicenda umana della piccola cieca,
costringendo i genitori ad un forzoso abbandono.
Margherita giunge a Città di Castello, entra a far parte della comunità
dopo aver superato delle prove ardue ed amare, per lei bambina, bisognosa di
assistenza per la sua cecità, ma soprattutto bisognosa di affetto.
Di tale collettività diventa parte integrante, al punto da rifondere su
di essa i benefici della grazia, i doni della precognizione.
La comunità tifernate ricompenserà Margherita ricordandola come figlia
propria, invocandola come santa subito dopo la morte, avvenuta il13 aprile 1320.
In sintesi, gli Acta Sanctorum
narrano gli avvenimenti che segnano il dies
natalis per Margherita da Città di Castello: “Sopportando con spirito lieto la menomazione alla vista, si mostrava
sempre serena in volto, modesta ed umile, disponibile e caritatevole in ogni
circostanza finché morì e recò l’anima in cielo, nell’anno del Signore
1320, il giorno 13 del mese di Aprile, nella casa dei detti coniugi Venturino e
Grigia, dopo aver chiamato ad assisterla i Frati ed aver preso piamente il
viatico dei Sacramenti”(18).
Più articolata e dettagliata è la descrizione degli eventi nel Codice
conservato a Bologna: “Dunque,
avvicinandosi la fine della prova per la vergine nella casa dei suddetti
Venturino e Grigia, Margherita cominciò a star male, preparandosi a ricevere
l’aureola della verginità destinatale in cielo; pur soffrendo fisicamente,
con lo spirito era fervidamente unita a Dio. Aggravandosi il suo stato, mandò a
chiamare i Padri Predicatori per ricevere il conforto dei sacramenti. Ricevuti
questi con indicibile devozione, come san Paolo volendo dissolversi ed essere
con Cristo, rese a Dio l’anima piena di grazie. E credo che Maria, sul cui
parto meditò finché fu in vita, la presentò al Figlio in gloria nell’anno
1320 dell’Incarnazione del Signore,
nel giorno 13 di Aprile”(19).
Il popolo accorre a venerare la salma della Terziaria: la sepoltura, già
predisposta in un ossario comune nel chiostro dei Padri Predicatori, è
richiesta a gran voce in un luogo più degno.
Sono gli stessi concittadini a decretare per Margherita la dignità
dell’elevatio, la sepoltura in
chiesa per consentire la gloria dell’altare.
Mentre sollecitamente si provvede a disporre il cadavere di Margherita in
una cassa, la sua mano si protende a toccare e risanare una giovane muta e
paralitica, che di slancio si alza e grida: “Beata Margarita me curavit” o - secondo la lezione meglio
articolata del Codice A di Cividale - “ Curata
sum meritis Margarite beate”, seguendone di lì a poco l’esempio di vita
religiosa.
I miracoli si moltiplicano, inducendo i Domenicani a predisporre un esame
autoptico per la religiosa norta in odore di santità.
La Vita del Codice A ed i testi
rielaborati dai Padri Bollandisti concordano nell’indicare i nomi dei due
patologi incaricati della ricognizione del cadavere.
Si tratta del Maestro Vitale da Castello e del suo collega Manno di
Gubbio.
Durante gli adempimenti preliminari, si verifica un nuovo evento che fa
gridare al miracolo: le braccia di Suor Margherita, inchiodate nel rigore della
morte, tendono ad incrociarsi di nuovo sul ventre, “coperien(te)s sexum fragilitatis humanae”, “naturae secreta”,a confermare la verginità e la pudicizia della
santa donna.
I medici si affrettano a concludere l’autopsia, dal momento che un
terremoto sconvolge la città ed il territorio circostante.
Le interiora vengono estratte dalla salma e sigillate in un canopo di
terracotta, mentre il cadavere viene ricomposto, asperso di profumi e olio
balsamico.
Solo più tardi, i frati decidono in Capitolo di procedere ad un più
completo esame dei precordi e delle viscere di Margherita: aperto il vaso, il
cuore di Margherita rivela agli astanti il più mirabile dei segreti.
In esso sono infatti nascosti tre globi, tre pietruzze in cui i frati
stupefatti individuano le sacre immagini della Natività di Cristo.
Assai dettagliata è la descrizione fattane nel testo della Legenda
del Codice A di Cividale, che al miracoloso evento dedica l’intero
ventiseiesimo capitolo, Miraculum de tribus lapilis qui fuerunt inventi in cana, que cordi
conexa erat.
Così narra l’agiografo
tifernate: “Crescendo il numero dei
miracoli palesi a tutti, si diffonde ovunque la fama, da ogni dove si affollano
le genti per vedere le reliquie della beata Margherita; si radunano dunque i
frati, e tenuto il capitolo stabiliscono di esumare quel vaso di terracotta in
cui erano state conservate le sue viscere e reputano opportuno conservarne il
cuore in un tabernacolo da mostrare a coloro che volessero vederlo.
Infatti, Colui che scruta i
cuori e ne conosce i segreti aveva disposto a ciò il cuore dei frati, perché
sapeva quello che vi era nascosto. Allora i frati più anziani di questo
convento, tra i quali erano fra Nicola di Giovanni Santo di Castello, fra
Gregorio del borgo di Cresci, converso, e parecchi altri, si avvicinano al
sepolcro insieme a parecchi altri, sia religiosi che secolari, tra cui alcuni
medici, come il maestro Giovanni ed il maestro Jacopo del Borgo ed Ugolino
Verde.
Sollevano detto vaso di
terracotta in cui le sue viscere erano state chiuse e sepolte. Allora, mentre il
già nominato fra Nicola, al cospetto di tutti i presenti, incideva la trachea,
dalla quale pende il cuore, per enuclearlo, d’improvviso da essa fuoriuscirono
tre straordinarie pietruzze, che portavano impresse immagini diverse.
In una di esse era incisa
l’immagine di una bellissima donna incoronata, in cui molti riconobbero
l’effigie della beata Maria vergine, a cui la beata Margherita portava
particolare devozione.Nella seconda, si vedeva un bimbo nella culla, intorno a
cui era un gregge, che molti dissero rappresentasse Cristo o la natività di
Cristo. Nella terza pietruzza era incisa l’immagine di un uomo calvo, con la
barba canuta e con un mantello d’oro sulle spalle, davanti al quale era una
donna inginocchiata, vestita con l’abito dell’Ordine dei Predicatori: in
questa scena, riconobbero San Giuseppe e la beata Margherita. A lato di questa
pietruzza era incisa inoltre una candidissima colomba, che fu interpretata come
l’immagine dello Spirito santo, per intervento del quale Maria concepì il
Cristo. E così apparve che nel cuore di Margherita c’era un tesoro immenso,
costituito dalle sue celestiali visioni. E queste tre pietruzze sono state fin
qui custodite presso la sacrestia dei Padri Predicatori come reliquie degnissime
ed esposte alla pubblica devozione ogni anno”(20).
Ci troviamo di fronte ad un raro fenomeno di stigmatizzazione plastica,
studiato tanto dal punto di vista clinico, quanto dal punto di vista religioso
nel duplice versante dell’esperienza mistica e della percezione legata a sua
volta alla devozione popolare ed alle forme di culto.
Le preziose reliquie dei tre globi nacosti nei precordi di Margherita da
Città di Castello furono dunque gelosamente custodite dai Padri Domenicani,
esposte annualmente ai fedeli.
Due di esse sono a tutt’oggi conservate in un reliquiario d’argento
presso la chiesa di San Domenico di Città di Castello, mentre una terza fu
donata a don Ferdinando di Borbone, signore di Parma, nel 1785.
Il Borbone era infatti un appassionato collezionista di reliquie, oltre ad
essere un devoto sovrano, protettore degli Ordini Religiosi.
Il globo era destinato ad essere esposto presso la chiesa di San Liborio,
a Colorno, e fu esposto annualmente in occasione della festività della beata
Margherita: di esso, però, con il dissolversi del Ducato di Parma, si è persa
ogni traccia.
La devozione fiorita intorno al corpo santo di Margherita è fortemente
legata al contesto urbano in cui la sua vicenda terrena si è compiuta, ed è
singolarmente connessa agli aspetti taumaturgici che la stessa tradizione locale
intende in correlazione con la personale esperienza, segnata dalla cecità e
dalla sofferenza, che la Terziaria seppe vivere con dignità e letizia,
valorizzando oltre ogni umano limite la condizione della malattia.
Il vincolo profondo che unisce Margherita, la cieca della Metola,
all’ambiente cittadino che la accoglie e tesse intorno a lei una fitta rete di
rapporti di solidarietà e di spiritualità è evidenziato dal fatto che il suo
più noto ed autorevole agiografo sia lo stesso Governatore di Città di
Castello, monsignor Giulio Daddei, testimone della seconda traslazione delle
spoglie della beata, avvenuta il 10 giugno 1558 e persuaso a consentire il culto
di Margherita prima del pronunciamento delle autorità religiose da una
personale esperienza, così come è affermato dalla duplice iscrizione posta
sotto alla lunetta del chiostro di
San Domenico,lungo le cui arcate scorrono le immagini che narrano le Storie
della beata Margherita: “Monsignore
Giulio Daddei Governatore di Città di Castello stimando malfatto incensare il
corpo della Beata Margherita s’infermò a morte ma ricorrendo alla Beata
subbito ricuperò la sanità: onde scrisse la Sua vita in lingua latina, compose
in sua lode una Ode bellissima e gli donò quel giglio d’argento che sino al
presente tiene in mano”(21).
La santa e la città si dotano dunque di reciproca salute: il comune
medievale, con la fluidità e la mobilità sociale che lo caratterizza, ha
consentito alla piccola cieca di superare il dramma dell’abbandono, le ha
garantito accoglienza ed assistenza costituendo l’ambiente ideale nel quale le
sue doti spirituali hanno potuto maturare, mutando in risorse le sue stesse
disgrazie.
Ora, è la città a beneficiare della santità di Margherita, che assurge
al ruolo di protettrice e taumaturga, secondo un evidente, plausibile meccanismo
di proiezione simbolica.
La figura di Margherita da Città di Castello riassume dunque in se’ le
caratteristiche della santità femminile così come fiorisce e si percepisce nel
contesto della società urbana del basso medioevo.
Essa la sintetizza e la esprime al massimo grado nella sua duplice
qualifica di tutela e salvazione materiale e spirituale, così come dimostrano
gli eventi miracolosi del XVIII secolo e la fondazione delle istituzioni
assistenziali che si attivano tra Ottocento e Novecento nel nome della beata
Margherita, la cieca della Metola, a Città di Castello.
NOTE
(1) ACTA SANCTORUM, De B. Margarita
Virgine Tertii Ordinis S. Dominici Tiferni seu Civitate-Castelli, in Umbria (Aprilis,
II): “ Duplex apud UmbrosTifernum est, Metaurense unum, quod nunc S.Angeli in
Vado dicitur; alterum Tyberinum, Castellum S. Felicitatis ab aliquis dictum,
hodie autem solo Civitatis Castelli nomine notum, vulgo Città di Castello: in
confiniis Umbrie atque Hetrurie, adeo ut huic etiam attribuatur à S. Antonino
atque à Platina; sed isti nunc rectius, cum sit Pontificia ditionis urbs, uti
& proximus totus Urbini Ducatus (...).
Hic citra corporea lucis usuram,
oculis orba vixit B. Margarita; ipsa lux patriae maxima, propter insignem
sanctimoniam, corporis incorrupti integritate testatam et frequentiam
miraculorum, quibus meruit ecclesiastico Officio (...)”.
(2) ACTA SANCTORUM, De B. Sybillina
Papiensi, Sorore de Poenitentia S. Dominici, Ticini in Italia (Martii,
III):“ ... desiderio vehementi recuperandi visum accensa, assiduis precibus
coepit invocare B. Dominicum, tamquam
singularem Patronum, ut visum sibi à
Domino suis meritis impetraret. Quod cum multis diebus continuasset ac mensibus
& instanter; ad praefati S. Dominici festum pervenit; quo die visum sibi
restitui infallibiliter expectabat. Quem cum non recuperasset in illius diei
Matutinis, cum multa fide videndi gratiam se recepturam credebat in mane; &
cum nec in Teriis recepisset, adhuc non infirmata fide spen protelavit ad
vesperam; qua demum tota die transacta, & videndi gratia non obtenta, ad
patronum suum B. Dominicum ausa est pie conqueri dicens: - Ergone sic, B.
Dominice, barasti me? Numquid non illusisti mihi, in eo quod ex tam iusta causa
satis ferventer ista tanta cum fide petebam? Restitue mihi orationes meas &
laudes, aliaque quae tibi obtuli frustra.-
Post haec in visu apparuit ei
idem B. Dominicus, de reclusorio eam trahens in aerem versus Cathedralem
ecclesiam, non multum inde distantem; & breviter ostendit quaedam tam
horrenda & obscura primo, postmodum ex parte alia quedam iucunda luce
splendentia, tam pulchra atque laeta tamque inexplicabili amoenitate fragrantia,
quod ex sibi in illa visione monstratis, cuncta ista caduca visibilia
parvipendens, desiderium videndi amplius ipsa caduca a se penitus retulit
evolasse: sicque gratias agens immensas Deo & Patrono suo; eidem (ut ita
dixerim) reconciliata est, tamquam melius per eum in his quae viderat exaudita”.
(3) AA.SS., (Aprilis, II): “voti
compotes, sic Deo disponente, nequaquam facti, in monasterio S. Margaritae
virginem relinquunt”.
(4) ivi: “a primis annis
corpusculum, quod nulla culpa offenderat, jejuniis & asperiori veste
castigare inceperit”.
(5) ivi: “verum cum sanctitati
morum, contemplationi, ac precibus ita vacaret ut reliquis ossequiis propter
orbitatem (oculorum) videretur ineptior, dimittitur a monialibus, & a quodam
Domino Venturino, & Domina Grigia ejus uxore, piis civibus, domo suscipitur”.
(6) Legenda, Codice “A” Cividale
(Biblioteca del Convento Domenicano di Bologna): “nedum spiritualiter sed etiam temporaliter notabillis”(IX).
(7) ivi: “ parentes illius ex hoc
vincuntur tedio dum filie negata videtur luminis restitutio et ut impii pre
fastidio illam solam absque conscillio derelinquunt in castello omni humano
privatam subsidio”(XIV).
(8) ivi: “ Comparet hiis, licet
non citatus, ad devorandum invigilans inimicus et suum superseminat zinzania,
inter has moniales invidiam concitans, superbiam suscitans et excitans
iracundiam; propter quod dicte moniales illius iam invidentes sanctitati
corectionesque quamvis humiles et caritativas suportare non valentes contumeliis
multiplicibus et iniuriis hanc pretiosam dilaniant margaritam. Quas cum mirabili
et ioconda suportabat patientia et maiora pro Christo apetens tormenta, parvi
pendebat minora. Videntes antedicte moniales tanto maiori succedebantur ira
quanto maior in illa virtus patientie relucebat, sed quia contrarioum natura
tallis est ut simul stare non possint, eam de dicto monasterio contumeliose et
turpiter eiecerunt, de quibus omnibus gratias Deo solicite referebat(XVI).
(9) ivi: “ Hanc vituperabiliter
sic evulsam recipiunt et enutriunt quedam persone devote prout divina clementia
dispensabat, inter quas erat quidam civis nomine Venturinus, vir catolicus et
devotus, et uxor eius nomine Gritia, qui unanimiter pietatis instictu quadam
parvulam ceculam deportarunt huic paupercule Margarite in superiori parte domus
sue, ut ibidem dormire et orationibus vacare posset. Et licet hec beata
Margarita in diversis locis et penes diversos miraculos
relucere cepisset que ex quadam videntur oblivione neglecta, in hoc tamen
quod accidit in predicta domo Venturini illius vite sanctitatis demonstratur”(XVII).
(10) AA.SS.(Aprilis, II): “in
ejus moribus praecipue oboedientiae, caritatis, pietatis, ac devotionis virtus
eminuit”.
(11) Legenda, cit.: “congruum
divine bonitati hoc esse videtur ut, quam mundus habere recusat, celum capiat,
et quod terra seu tereni respuant illam que de terram non sentit”(XX).
(12) ivi: “haec cultui divino in
infancia mancipatur et celula quedam iuxta ecclesiam dicti castri illi a patre
preparatur, in qua puerula inocens et benigna recluditur, ne a cuncurentibus
hominibus filia notabilis tam diformis videatur, et sic ad penitentiam invitatur
antequam per illam pecatum grave cogmittatur, ut sic, cum illa pro pecatoribus
Deum precatur, in sue penitentie meritum quod a Deo petierit id adsequatur”(X).
(13) ivi: “ haec in puerilibus
annis in penitentia delectatur, cum se a Deo electam meditatur, qui per eam se
contemplatur, dum mens tam tenera illius luce radiatur”.
(14) ivi: “ Nec mirum si illius
dumtaxat puro visui se ostendere volebat, qui tenerorum omnimoda visione illam
privaverat ut in vase fictili et abiecto divina clementia reluceret”(XXII).
(15) ivi: “ad idem mentis puritas
et virginitas, qua polebat, hec atestantibus de illa confessoribus uniformiter,
cuibus dum viveret fuit confessa”.
(16) AA.SS. (Aprilis,II): “ Puritate
etiam mentis futura quaedam praevidens, prophetici spiritus certis signis se
monstravit esse participem. Mam cum quidam civis Offreducius & Bice uxor
ejus, unicam filiam Cecham nomine matrimonium jungere studerent, nec tractatus,
quos frequentes habebant, aliquem sortirentur effectum; Permittite, inquit
Margarita, quae parentum & filiae erat familiaris, ut Cecha habitum S.
Dominici sumat, & in virginitate vivat. Cui illi subirati, Desine, inquiunt,
hujusmodi persuadere: numquam enim portatura est filia nostra religiosum habitum.
Tunc Margarita puellae matrem alloquens ait, Immo filia tua & tu etiam
habitum Religionis non post multos dies assumetis, & usque ad mortem
deferetis. Quod rei eventu comprobatum est: illae enim, sive voto sive quo
spiritu ductae, Sanctum habitum induerunt, totaque vita sunt usae”.
(17) ivi: “Ejusdem etiam
Offreducii filio dies erat a Praeside dicta, timebantque propterea parentes
judicialis alicujus poenae mulctam graviorem. Qua de re cum Margarita videret
adolescentis matrem valde anxiam atque solicitam: Ne timeas, inquit, Bice, neque
enim propter hoc denarium quidem solvetis, nec patietur quidquam vir tuus aut
filius. Post paucos deinde dies subsecuta à Praeside absolutio praedicationis
B. Margaritae firmavit eventum”.
(18) ivi: “Ipsa detrimenta
oculorum hilari patientia ferens, jucunditatem quadam vultus cum eximia modestia
ac honestate conjunctam semper praemonstrabat, cunctis in rebus pia humilitate
praestabilis Quibus dum vitam exerceret in terris, animam caelo intulit, anno
Domini MCCCXX, die XIII mensi Aprilis, in domo dictorum Venturini, & Grigiae
conjugum, convocatis prius Fratribus, ac Ecclesiae Sacramentis pie receptis”.
(19) Legenda, cit.: “Appropinquante
igitur fine certaminis virginis prelibate in domo dictorum Venturini et Gritie
Margarita, virginitatis aureolam in celo sibi repossitam acceptura, egrotare
cepit; et licet corpore graviter languesceret, spiritu tamen Deo ferventer
inherebat. Invalescente igitur infirmitate, convocari fecit fratres
praedicatores pro sacramentis ecclesiasticis asumendis. Quibus cum quanta non
dico devotione receptis, anelans una cum Paulo disolvi et esse cum Christo,
spiritum Deo reddit gratiosum, quem, ut puto, mater Dei Maria, de cuius partu
cogitavit dum esset in hac via, Filio presentavit in gloria anno Incarnationis
dominice M°.CCC°.XX°, die XIII aprilis”(XXIII).
(20) ivi: “Crescentibus miraculis
evidentibus invalesens fama spargitur
circumquaque, concurunt undique gentes, anelant videre reliquias beate Margarite,
conveniunt invicem fratres et conscilio habito terminant exumare vas illud
tereum in quo fuerant interiora recondita et cor illius ponere pro reliquia in
quodam tabernaculo aureo tenendo in sacristia et illud ostendere volentibus
videre. Sciebat enim scrutator cordium et cognitor secretorum qui ad hoc fratrum
corda firmaverat, quod ibidem latitaret. Properant igitur ad dictum sepulcrum
fratres antiqui dicti conventus, inter quos adherat frater Nicolaus Iohanni
Sancti de Castello, frater Gregorius de burgo Cresci, conversus, et plures alii
tam clerici quam seculares, et quidam medici videlicet magister Iohannes et
magister Iacobus de Burgo et Ugolinus Viridis. Extrahunt dictum vas tereum in
quo viscera condita fuerant et sepulta. Quo extracto dum dictus frater Nicolaus
presentibus suprascriptis et aliis multis incideret canam, ad quam dictum cor
pendet, ut purum extraheret, subito ex dicta cana tres lapilli mirabiles
exilierunt diversas ymagines impressas habentes. In quorum altero quedam facies
cum corona aurea cuiusdam mulieris pulcerime videbatur insculpta, quam quidam
interpretati fuerunt efigiem esse beate Marie virginis gloriose cui aficiebatur
immensa devocione Margarita beata. In altero vero quidam parvulus videbatur in
cunis et pecudes circumquaque, quem Christum vel Christi nativitatem quidam
significare dixerunt. In tertio vero lapillo sculpta erat ymago cuiusdam viri
calvi cum barba canuta et cum palio aureo super spatullis et coram isto quedam
mulier vestita in habitu Predicatorum genuflexa, et hunc beatum Iosep et beatam
Margaritam figurare dixerunt. A latere vero dicti lapilli sculpta erat quedam
candidissima columba, quam Spiritum Sanctum representare dixerunt, quo mediante
Maria Filium concepit. Et sic aparuit quod ubi cor Margarite fuit, ibi tesaurus
mirabillis est inventus, quia ut supra dictum est, in predictis iugiter
cogitabat. Et dicti tres lapilli in sacristia dictorum fratrum Predicatorum
usque in hodiernum diem sunt pro reliquia notabili reservati et annis singulis
publice demonstrantur”(XXVI).
(21) Città di Castello, Chiostro di San Domenico. Il testo
dell’iscrizione latina recita: “Illustrissimus
Dominus Iulius Daddeus Tiferni Praetor extraneum dicebat beatae Margaritae
corpus thus adoleri. Unde sequenti nocte multiplici laetalium corrivatione
deliquiorum correptus, pristinum corrigit animi sensum, Beataeque munere
reductus incolumi, Virginitatis integerrimo lilio munerati, illius istoriam
latinae puritati consecrat, italicoque rijtmo melius canit”.
LUCIA BROCCADELLI DA NARNI (1476 - 1544)
La figura storica di Lucia Broccadelli, nata a Narni da un nobile casato
legato alle magistrature locali, vissuta per poco meno di mezzo secolo a Ferrara
tra alterne vicende che la annoverano tra i protagonisti della storia della
Signoria estense, segna il trapasso dall’età comunale alla stagione del
potere signorile nel complesso ed agitato periodo in cui maturano le istanze
della Riforma cattolica, destinate a confrontarsi ed a convergere in sede
conciliare a Trento, intorno alla metà del XVI secolo, con le posizioni più
oltranziste, che si oppongono radicalmente alla Riforma luterana.
La Terziaria Domenicana Lucia da Narni testimonia la conclusione del
graduale processo di affermazione economica e politica intrapreso dalla
borghesia mercantile nell’Italia delle cento città durante il lungo autunno
del medioevo: inserita per nascita nei ranghi più elevati dell’aristocrazia
civile, destinata con le nozze ad entrare in un nobile casato, partecipa
seguendo appieno la vocazione religiosa a quel vasto movimento guidato
dall’Ordine Domenicano, che intende attraverso la conversione dei cuori
promuovere il rinnovamento globale della società civile.
Con stili diversi, di volta in volta intessendo reti di rapporti
improntati alla confidenza ed alla partecipazione di affetti, affidando alla
parola profetica il senso più alto della verità, oppure esponendosi
direttamente in un impegno amministrativo, donne ed uomini appartenenti
all’Ordine dei Predicatori si riconoscono e si ritrovano a dar vita ad un
disegno ben più elevato di un pur nobile progetto politico.
Negli ultimi mesi della sua vita, durata poco meno di ottanta anni, metà
dei quali trascorsi in estrema solitudine, la stessa suor Lucia scrive il testo
delle sue memorie, affidando alle pagine dell’autobiografia il senso profondo
di un’esperienza complessa e sofferta tanto nell’esaltazione degli anni
giovanili, dapprima a Viterbo, poi a Ferrara presso la corte estense, quanto
nella miseria dell’abbandono, della forzosa clausura accettata con dignità,
vissuta come un dono.
Del manoscritto originale si perdono le tracce, ma se ne conserva una
copia presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Ferrara.
Oltre a questo prezioso testo, di documentazione complessiva, risultano
fondamentali per la giusta contestualizzazione storica di Lucia da Narni i testi
della corrispondenza intercorsa tra la monaca ed i potenti del tempo, dal
pontefice Alessandro VI ad Ercole I d’Este, fino ai diplomatici che
rappresentano le corti di Francia, d’Austria e di Spagna.
Lucia Broccadelli, monaca del Terz’Ordine della Penitenza di San
Domenico, attraversa nella sua esistenza la molteplicità di forme nelle quali
si può legittimamente articolare la vita di una
donna: è figlia, e come tale partecipa di uno status sociale elevato,
essendo primogenita di una prestigiosa famiglia narnese.
Il padre, Bartolomeo, è tesoriere del Comune di Narni, la madre,
Gentilina da Cassio, è una nobile dama, buona madre di famiglia, dedita alla
cura ed all’educazione dei numerosi figli, quattro maschi e quattro femmine.
La biografia di Lucia da Narni non si discosta, per gli anni
dell’infanzia e della prima formazione religiosa, dai modelli convenzionali,
che propongono per le bambine destinate ad un futuro di santità una precoce
devozione alla Madonna ed ai Santi, una particolare attitudine alla preghiera ed
alla mortificazione della carne a cui si aggiungono doti spiccate di obbedienza
e carità.
A sette anni, Lucia comprende la sua vocazione e partecipa al confessore
la sua acerba, ma determinata volontà; a dodici anni, conferma il voto di
castità rifiutando ogni profferta di matrimonio.
La morte prematura del padre, la condizione di orfana, la responsabilità
di primogenita la costringeranno più tardi a contrarre un casto matrimonio con
il conte milanese Pietro di Alessio.
Lucia è dunque sposa, e la sua esperienza matrimoniale la porta a
confrontarsi con altri aspetti della vita sociale, con altre pieghe dell’animo
umano.
Il giovane giurista lombardo che ottiene da lei il consenso alle nozze
concorda nell’assicurarle una unione casta: in verità, innamorato di Lucia,
egli sottosta a questa condizione senza comprenderne il profondo senso morale e
confida che, con il passare del tempo, la giovane sposa acconsenta a condividere
con lui la pienezza della vita matrimoniale.
Intanto, le responsabilità dell’amministrazione domestica vedono la
giovane sposa pronta ad assumere il comando della casa trattando con grande
umanità i servi e dedicando ad opere di carità ed assistenza le cospicue
ricchezze domestiche.
L’unione con Pietro di Alessio dura per quattro anni, dal 1491 al 1495:
quando Lucia contrae le sue nozze terrene è una fanciulla di quindici anni, che
docilmente asseconda la volontà della madre e dei parenti che esercitano su di
lei la tutela.
Il legame con lo sposo, che Lucia avrebbe inteso rinsaldare nella
condivisione della castità, diventa sempre più un vincolo coartante: Pietro
infatti rivendica appieno l’esercizio dei suoi diritti coniugali, non compren
dendo l’altezza e l’irrevocabilità del voto pronunciato a suo tempo da
Lucia.
A nulla valgono, per lui, le minacce e le ritorsioni, quando costringe la
moglie all’isolamento per un’intera quaresima.
E’ la Pasqua del 1495 quando Lucia abbandona la casa del conte Pietro di
Alessio per tornare dalla madre e dai fratelli.
L’esperienza coniugale si è rivelata dunque amara e deludente, dominata
da una concezione diffusa che subordina le scelte morali alle convenzioni,
anteponendo addirittura i diritti maritali ai precetti divini.
La disillusione riconferma Lucia nella primitiva volontà di pronunciare i
voti e vestire l’abito religioso.
Superata ogni resistenza ancora opposta da parte dei familiari, che temono
la vendetta del marito deluso, in occasione della solennità dell’Ascensione
Lucia Broccadelli viene accolta solennemente
a far parte del Terz’Ordine della Penitenza.
La vestizione avviene presso la chiesa di San Domenico, al cospetto
dell’autorevole padre Martino da Tivoli, che da anni segue spiritualmente la
giovane.
Alcune vili rappresaglie compiute dagli scherani del conte contro il
convento dei Padri Predicatori inducono i superiori dell’Ordine ad organizzare
il trasferimento di suor Lucia presso il Monastero di San Tommaso di Viterbo.
La giovane terziaria accoglie di buon grado la decisione,dimostrando di
tener fede al voto di obbedienza.
La sua dedizione, il suo autentico spirito di pietà fanno sì che a
Viterbo si diffonda la fama della sua santità di vita, destinata a crescere a
dismisura dopo che sul suo corpo compaiono i segni delle stimmate.
Durante la notte tra il 24 ed il 25 febbraio del 1496, che segna il
secondo venerdì di Quaresima, suor Lucia vive una profonda estasi, che la
lascia sfinita e languente accanto alle consorelle raccolte in preghiera nel
coro del monastero.
L’assiste suor Diambra, che la priora ha incaricato affinché vigili e
soccorra, nonchè prenda rigorosamente nota di tutto ciò che accade intorno
alla Terziaria, in odore di santità.
La condivisione della sofferenza della Passione, l’imitatio Christi si manifesta con straordinaria intensità per Lucia
da Narni, che ha sublimato le umane tensioni, ha risolto gli affetti terreni
votandosi totalmente alla vita dello spirito.
La comunità regolare delle Terziarie di San Tommaso informa le autorità
religiose e civili dell’accaduto, tanto che il Vescovo ed il Magistrato di
Viterbo danno l’avvio ad una prima ricognizione medica delle stimmate della
monaca.
Il Governatore cittadino è presente al primo, tempestivo accertamento,
suffragato dalla testimonianza commossa di suor Diambra, suor Leonarda e le
altre consorelle che salmodiavano in coro l’Ufficio Notturno, recitando e
meditando i versetti del Salmo LXXXVIII, “Canterò in eterno le misericordie
del Signore” quando il corpo di suor Lucia si ricoprì delle cinque piaghe
della Passione di Cristo.
Un secondo esame clinico fu compiuto un anno più tardi, il 23 aprile del
1497 su richiesta dell’Inquisitore Domenicano fra Domenico di Gargnano, alla
presenza del Vescovo di Castro, monsignor Maulino.
Qualche mese più tardi, fu la volta della Santa Sede che inviò il medico
pontificio Berardo da Recanati ed il teologo Paolo Giustiniani, in
rappresentanza dell’Ordine dei Predicatori.
Compiuto un attento ed accurato esame delle stimmate di suor Lucia,
fasciate e sigillate per nove giorni al fine di verificare eventuali processi di
cicatrizzazione o, peggio, di riscontrare le prove di una falsificazione, fu
riconosciuta l’assoluta veridicità del fenomeno: pertanto, il 18 gennaio 1498
papa Alessandro VI rivolse ai magistrati di Viterbo l’ordine di far partire
suor Lucia alla volta di Roma.
Il pontefice rivela infatti una singolare attenzione riguardo alle monache
del Terz’Ordine della Penitenza di San Domenico, individuando nella loro
partecipazione attiva alla vita del secolo una forma originale ed assidua di
praticare il loro apostolato, in maniera funzionale rispetto alle esigenze di
una chiesa che non poteva ormai disattendere le richieste verso una complessiva
riforma che da più parte insistentemente si levavano.
Lo stesso papa che in quell’anno abbandona al braccio secolare il
Domenicano fra Girolamo Savonarola dopo averlo fulminato con la scomunica
dimostra di seguire con sincera partecipazione l’analogo cammino intrapreso
dalle correligionarie che intendono portare il loro contributo al rinnovamento
morale e spirituale della società del tempo, proponendo un alto modello di vita
e praticando una diuturna opera di assistenza spirituale nei confronti di coloro
che rivestono i più alti incarichi nella vita politica attiva.
La richiesta di papa Borgia, che resta peraltro disattesa, ha un timbro
autoritario e devoto ad un tempo: “Desideriamo
vedere e parlare con la diletta figlia in Cristo Lucia da Narni (...)
è giunto a Noi il grato profumo della fama della sua vita esemplare”.
La comunità viterbese si oppone tenacemente alla richiesta del papa: la
presenza della monaca stigmatizzata sta infatti già producendo degli effetti
positivi tanto per il monastero, che vede crescere le vocazioni e le elemosine,
quanto per la città, che ha insperatamente acquistato un elemento di
aggregazione simbolica, utile a generare pacificazione tra le fazioni in perenne
conflitto, a cui si può peraltro ricorrere nei casi difficili della vita -
pubblica e privata - chiedendo intercessione e conforto.
La giovane monaca è turbata da tanto interesse nei suoi riguardi, tanto
da cercare una affidabile guida spirituale.
Per avere conforto e trovare consiglio, si rivolge alla correligionaria
Colomba da Rieti, più anziana di lei di dieci anni, che già da tempo è attiva
a Perugia dove ha fondato la comunità del Terz’Ordine Regolare di Santa
Caterina da Siena.
La fama di suor Colomba è viva da oltre un decennio a Viterbo, dove in
pellegrinaggio al Santuario di Santa Maria della Quercia esorcizzò
un’indemoniata.
Dal monastero di San Tommaso, suor Lucia spedisce lettere ed invia messi,
ottenendo in risposta le benedizioni di suor Colomba, che indirizza a lei un
religioso in cerca di una guida spirituale.
Interrogata sulla natura delle stimmate di Lucia da Narni, Colomba da
Rieti disquisisce dottamente con il messo Carletto da Corbara, poi rifiuta
umilmente di dare una risposta scritta, adducendo a pretesto la sua modesta
condizione: “A me non se conviene de
amonire le ancille de Cristo adornate e dotate de optimi doni cum le mei
insipide parolecte. Ma io me recomando a le orationi de quille”(Sebastiano
Angeli de’ Bontempi, O.P., Legenda
volgare, cap. XLII).
Cresce intanto la fama intorno alla monaca stigmatizzata.
Da Ferrara, il duca Ercole I d’Este si rivolge al papa per avere il
consenso a chiamare a corte Lucia da Narni.
Spirito profondamente cristiano, l’anziano duca intende dotarla di un
monastero ponendo se’ stesso ed il suo ducato sotto la sua tutela e la sua
guida.
Durante le trattative, destinate a durare ben tre anni, il potente signore
estense intraprende diretti rapporti epistolari con suor Lucia, a cui si rivolge
con l’umiltà ed il rispetto di un devoto figlio in spirito.
La “Reverenda Madre”è
pronta all’obbedienza, disposta a compiere fino in fondo la volontà di Dio:
se dovrà essere Ferrara il campo della sua missione spirituale, andrà presso
la corte estense.
Chiede soltanto l’esplicita approvazione del papa, alla cui decisione
rimette la propria, raccomandando che cessino i malumori, si superino gli
ostacoli alla sua partenza da Viterbo.
Persino il viaggio a Roma le viene impedito, nel timore di perdere una
presenza strumentalmente rilevante per la comunità laziale.
Può recarsi dal papa soltanto la consorella suor Diambra, testimone degna
di fede degli episodi estatici, culminati nella stigmatizzazione, di cui suor
Lucia è stata protagonista.
La guardia dei viterbesi intorno al monastero domenicano di San Tommaso si
fa sempre più rigorosa, mentre la diplomazia del Ducato di Ferrara intraprende
la sua attività intessendo una fitta rete di colaborazioni e connivenze affinché
Ercole d’Este possa avere presso di se’ la monaca in odore di santità.
Interpongono i loro buoni uffici alla soluzione del problema i Vescovi di
Castro e di Rovigo, oltre ai vescovi a capo delle Diocesi di Viterbo e di
Ferrara, direttamente coinvolti nella questione; intervengono con tutto il
prestigio della loro autorità il cardinale Ascanio Sforza e l’arcivescovo di
Milano, cardinale Ippolito d’Este.
Un contributo di singolare importanza viene offerto dal ferrarese
monsignor Filino Sanidei, segretario particolare di Alessandro VI, che riveste
un ruolo di prim’ordine nella tessitura di una trama delicata e segreta, che
persuade la monaca alla fuga dal monastero di Viterbo.
Nella primavera del 1499 Lucia da Narni affronta un viaggio travagliato ed
avventuroso,
abbandonando il monastero di San Tommaso nascosta in una cesta di
biancheria.
L’accompagnano la madre Gentilina da Cassio, la cugina e correligionaria
suor Orsola.
Sono in allarme le truppe ferraresi, che da oltre due anni hanno
distaccato nei pressi di Orte il Capitano degli Alabardieri, Alessandro Fiorani,
con i suoi uomini più fidati.
Dopo una breve sosta a Narni, la comitiva raggiunge Ferrara il 7 maggio:
tre giorni più tardi, la gioia dell’accoglienza è turbata dalla morte di
suor Orsola, sfinita dalle fatiche e dai disagi del lungo cammino.
Intanto, il duca Ercole I d’Este non lesina feste ed onori alla
religiosa ed a coloro che l’accompagnano.
Ha predisposto per lei un degno alloggio, sia pur provvisorio, e si
adopera affinché il progetto di dotare suor Lucia di un proprio monastero
giunga al più presto a buon fine.
Papa Alessandro VI convalida la pia intenzione del duca di Ferrara,
inviando un Breve con il quale approva la costituzione del monastero intitolato
a Santa Caterina: della nuova istituzione sarà priora Lucia da Narni, definita
dal pontefice “fedele discepola ed
imitatrice” della più celebre e venerata santa del Terz’Ordine della
Penitenza di San Domenico.
Quando nel 1501 il nuovo monastero sarà inaugurato, ammonteranno già a
72 le monache radunatesi intorno a Lucia da Narni: lo stesso edificio viene
progettato e costruito per accogliere cento religiose.
Lucia da Narni, costituita come priora per volontà dell’illustre
protettore locale e per decreto pontificio, esercita un’indubbia attrazione
nei confronti delle donne, giovani e meno giovani, che si radunano intorno a
lei.
D’altro canto, il numero elevato e la novità delle vocazioni,
probabilmente non sempre ben ponderate e verificate dalle stesse autorità
religiose, comporta il rischio di costituire un comunità troppo vasta ed
eterogenea, difficile da guidare dal punto di vista spirituale e governare
disciplinatamente.
La fama ed il carisma di cui gode la fondatrice costituiscono solo per
poco tempo elementi di aggregazione e di coesione per il capitolo del monastero
di Santa Caterina, dal momento che presto si delineano due schieramenti, l’uno
direttamente legato - a volte, anche da parentela - a Lucia da Narni, l’altro
composto dalle monache già appartenenti a comunità del II Ordine, confluite
nel monastero del III Ordine Regolare.
I privilegi riconosciuti da Alessandro VI a Lucia da Narni, in quanto
priora del monastero di Santa Caterina, e gli stessi vincoli che il pontefice
impone a chi dovrà succederle alla guida della comunità religiosa sembrano per
un verso antivedere e controllare le possibili discordie, per l’altro
probabilmente le esasperano, dando della stessa monaca un’immagine distorta,
falsata dai legami con il potere e da essi condizionata.
Di fatto, i contrasti interni al monastero valicano le mura del chiostro,
generano polemiche che riecheggiano fuori dai confini del Ducato di Ferrara a
tal punto che l’Inquisitore della Germania Superiore, il Domenicano Enrico
Institore istruisce un nuovo processo riguardo al fenomeno della
stigmatizzazione.
In data 2 marzo 1500 si riunisce così una nuova commissione, la quarta
nell’ordine dalla manifestazione dell’evento.
L’esame si svolge al cospetto di numerose autorità, dal duca Ercole
accompagnato dal fratello Sigismondo, dal figlio Ferrante e da numerosi
dignitari di corte, ai Padri Domenicani fra Nicola Cerugo, confessore della
monaca, e fra Giovanni di Taggia, inquisitore di Bologna e confessore del Duca.
Ancora una volta, la ricognizione attesta l’assoluta autenticità delle
stimmate di suor Lucia che frequentemente sanguinano nelle giornate di mercoledì
e venerdì, le cui pezzuole sono tenute nel conto di reliquie.
Nonostante ciò, dentro e fuori dal monastero i detrattori di Lucia da
Narni continuano nella loro opera calunniosa ed offensiava, tanto che Ercole
d’Este ritiene di dover intervenire pubblicamente attestando la santità di
vita della religiosa, descritta come una “donna
di vita pudicissima e di santità quasi divina, ornata dell’aureola verginale,
che porta sul suo corpo le stimmate di Nostro Signore Gesù Cristo”.
Analogo tenore hanno le attestazioni di quattro giureconsulti
dell’ateneo ferrarese, tra i quali si segnala Giovanni Valle di Saluzzo, che
era stato presente alla ricognizione del marzo del ’500, la dichiarazione di
Nicola Maria d’Este, vescovo di Adria e consigliere di Luigi XII, il sovrano
di Francia che per suo tramite chiede in dono le fasce intrise del sangue di
Lucia da Narni, le dichiarazioni argomentative del vescovo suffraganeo di
Ferrara, il francescano Pietro da Trani, ed infine le lettere patenti rilasciate
dal cardinale Ippolito I d’Este.
Papa Alessandro VI, per porre fine alla delicata questione, invia per un
definitivo riesame il proprio medico personale, Bernardo Bongiovanni da
Recanati: il 16 febbraio del 1502 suor Lucia è accompagnata presso il monastero
ferrarese dell’Annunziata, dove la visita ha luogo al cospetto del Duca, di
sua nuora Lucrezia Borgia, del vicario generale di Roma Pietro Gambo.
Il referto medico è estremamente dettagliato: l’illustre clinico espone
fin nei dettagli i risultati della sua ricognizione che sottopone all’avallo
dei vescovi Pietro da Trani e Nicola Maria d’Este.
Così il patologo pontificio Bernardo
Bongiovanni descrive le stimmate di Lucia da Narni: “nelle
mani, cioè nel mezzo della palma, accuratamente investigando e toccando con
diligenza abbiamo trovato due ferite di figura sferica bagnate all’intorno di
sangue lucidissimo; e ciascuna ferita aveva nel mezzo dell’apertura il sangue
alquanto congelato, e l’una e l’altra erano di uguale grandezza; e sebbene
quando quella vergine era leggermente toccata circa la ferita, veniva assalita
da grandissimo dolore, pure tutte le altre parti della mano che stavano più
presso la ferita, se si eccettui qualche dito verso l’incurvazione vicino alla
palma, e nel colore, e negli accordi, e in ogni loro natura (ciò che non può
darsi senza prodigio o miracolo) belle giacevano incolumi e sanissime con tutta
la loro integrità (...) Con simile
studio e diligenza abbiamo esaminato i suoi piedi, che in egual modo avevano
impresso le medesime piaghe: cosa degna non meno di considerazione che mirabile,
perché ciascun piede in tutta la sua integrità nelle altre parti, aveva sulla
sommità la sua piaga, sebbene questa sia maggiore nel destro che nel sinistro.
Il che è alieno non pure da meraviglia che da ragione”.
La dotta e dettagliata relazione dell’uomo di scienza, che in qualità
di vescovo regge la Diocesi di Venosa, rende conto non soltanto dello stato
della monaca stigmatizzata, a sei anni dalla manifestazione del fenomeno, ma
palesa lo stato in cui versano le conoscenze mediche nella prima età moderna.
Dal punto di vista della storia dell’arte medica, infatti, il testo
presenta non poche peculiarità che possono essere assunte come indicatori
dell’atteggiamento condiviso dalla comunità scientifica del tempo.
L’allusione al “congelamento” del sangue, piuttosto che alla sua
coagulazione, rende esplicito il riferimento alla aristotelica teoria degli
umori, che associa le caratteristiche termiche alle peculiarità psicologiche e
fisiologiche dell’individuo, filtrando attraverso la Scolastica fino agli
albori dell’evo moderno.
Inoltre, appare oltremodo significativa l’osservazione riguardo alle
piaghe dei piedi, la destra più vasta della sinistra.
L’estensore del referto clinico commenta che tutto ciò è inspiegabile,
tanto che “non solo la frode degli
uomini, o l’inganno, o l’astuzia, ma la natura stessa madre di tutte le cose
è stata superata”:
Eppure, l’irregolarità della ferita trova una ragione plausibile se
confrontata con i dettami dell’iconografia sacra, che tratta diffusamente il
tema canonico della Crocifissione.
Assai di frequente, il Cristo crocifisso viene raffigurato, tanto nei
dipinti quanto nel modellato della statuaria, con i piedi sovrapposti,
attraversati da un unico chiodo.
In questa maniera, resta intuitivo il risultato di una lacerazione più
ampia sul dorso del piede che s’incrocia sull’altro, ed è plausibile che
nei destrorsi si accavalli il piede
destro sul sinistro.
Se è così, l’imitatio Christi raggiunge
in Lucia da Narni manifestazioni davvero sconcertanti, che sfuggono
all’indagine scientifica ed alla comprensione umana e determinano per la
stessa monaca stigmatizzata motivo di aspre critiche e di gelosie meschine.
Sopportata pazientemente l’umiliazione delle sei visite di ricognizione,
superata l’ondata delle maldicenze, nel settembre del 1503 suor Lucia cede il
priorato del monastero di Santa Caterina, rimettendosi alla volontà del
Capitolo.
La comunità religiosa si fa sempre più ampia numericamente ed eterogenea
per formazione, incrementando di continuo il numero delle vocazioni, a volte
autentiche, a volte determinate da scelte familiari o da suggestioni
indirettamente legate alla presenza della stigmatizzata.
Il prestigio di cui suor Lucia gode all’interno del monastero è a sua
volta precario, mantenuto di riflesso alla protezione che il Duca Ercole
continua ad accordare alla sua consigliera spirituale.
L’equilibrio si mantiene tra alterne vicende fino 1505.
La morte di Ercole I d’Este, che durante l’ultimo decennio del suo
ducato aveva promosso ed incrementato la presenza del clero regolare e secolare
della città, segnò il definitivo declino per Lucia da Narni, costretta dalle
decisioni del capitolo il 20 febbraio 1505 a rinunciare ai privilegi concessi
dal pontefice ed a chiudersi in una forzosa clausura.
Nel piano di rinnovamento morale e spirituale elaborato dal Duca estense,
al fine di modellare la città dell’uomo - Ferrara, la sua città -
sull’alto esempio della città di Dio, Lucia da Narni aveva indubbiamente
rappresentato la “santa viva”, l’ancella del Signore sotto la cui tutela
Ferrara avrebbe prosperato in ogni campo delle attività civili, mantenendo fede
ai precetti della vita religiosa.
Con lungimiranza e generosità, Ercole I aveva dotato gli Ordini religiosi
di chiese e monasteri, offrendo ampio spazio ai loro insediamenti nel progetto
dell’Addizione.
L’opera carismatica a cui Lucia da Narni è chiamata si compie appieno,
per quanto riguarda il suo autorevole protettore e la sua corte, che certo
risente di positivi effetti nei rapporti diplomatici, che Ercole persegue
mediante un’accorta politica matrimoniale.
Ciò che il duca sottovaluta e la pia monaca non è in grado di dominare,
proprio per la sua scarsa attenzione alle cose terrene, è la competizione che
si stabilisce tra i monasteri presenti in Ferrara, che ambiscono ad un primato
di santità: presso il monastero di Santa Caterina d’Alessandria infatti
vivono le pie monache Angela e Cecilia, che godono di grande fama di spiritualità,
presso il monastero di Santa Caterina da Siena sono venerate come sante suor
Beatrice e suor Eustochia.
Inoltre, presso l’insediamento domenicano di Santa Caterina, si
verificano situazioni di conflitto fra le monache del secondo e del terzo Ordine
, costrette dalla volontà del Duca e dal decreto del Papa ad una convivenza
forzata che genera sordi conflitti, destinati a manifestarsi in maniera aspra e
virulenta alla morte di Ercole d’Este.
Lucia da Narni, che in precedenza ha assolto al delicato compito di
consigliera spirituale presso la corte estense, porta a definitivo compimento il
proprio cammino di purificazione e perfezionamento assumendo su di se’ il
ruolo di capro espiatorio, mantenuto rigorosamente fino alla morte, sopraggiunta
il 15 novembre del 1544, dopo ben trentanove anni di totale isolamento, vissuti
con serenità di spirito e singolare capacità di sopportazione.
L’anno 1505 segna inoltre la data in cui scompaiono le straordinarie
manifestazioni che hanno indotto tanti a gridare al miracolo, tanti altri a
denunciare la millanteria, lasciando traccia delle ferite stigmatiche soltanto
nei dolori che il fragile corpo della monaca pazientemente subisce.
Solo nella ricognizione medica compiuta sulle spoglie di Lucia da Narni
nel 1710, anno in cui papa Clemente XI emette un decreto di riconoscimento del
culto in suo nome,fu possibile individuare traccia della ferita sull’emitorace,
l’unico rimasto visibile ma prudentemente celato dalla monaca agli sguardi
curiosi, troppo frequentemente malevoli, dei contemporanei.
La sofferenza che si protrae per la durata della seconda metà della sua
vita terrena è per suor Lucia l’espiazione per le altrui colpe, costituisce
l’occasione di condividere nel modo più autentico la Passione di Cristo,
dall’abbandono al tradimento, dall’isolamento morale al dolore fisico.
L’itinerario spirituale tracciato e percorso fino in fondo da Lucia da
Narni è dunque fortemente improntato all’ imitatio
Christi, superando gli schemi più consueti di una genealogia della santità
femminile domenicana, modellata sull’esempio di santa Caterina da Siena: così
come nella vita eterna non sarà più legittimata l’appartenenza di genere,
Lucia da Narni decanta le scorie della condizione umana nella condivisione della
sofferenza, sublima in essa ogni miseria, scopre nella virtù del perdono il
senso della sua amara vicenda terrena.
L’ESPERIENZA DELLA MISTICA
L’Ordine Domenicano segue, in tutti i suoi ranghi, il dettato
mirabilmente definito da san Tommaso d’Aquino, contemplata aliis tradere affidando essenzialmente alla predicazione
la funzione primaria della diffusione della vera fede.
Alla pratica omiletica si affianca lo studio e la meditazione, secondo la
volontà del fondatore: “Il beato
Domenico voleva i suoi sempre intenti allo studio, alla preghiera, parlando con
Dio, o alla predicazione, parlando di Dio”(Processo di Bologna, nn.32.41).
Le mulieres sanctae del
terz’Ordine mettono in pratica il dettato prescritto dallo stesso San Domenico
mediante la parola profetica, che ammonisce ed esorta al pari della
predicazione, che resta esclusivo retaggio maschile.
L’esercizio della preghiera e della meditazione viene intensamente
praticato, tanto nelle forme spontanee della vita domestica, quanto nelle forme
organizzate della vita comunitaria, trovando la più propria espressione nel
linguaggio della mistica.
Di frequente, le Terziarie Domenicane partecipano dell’esperienza della
contemplazione mistica ma restano schive e restie ad affidarne la memoria alla
narrazione, tanto affabulatoria quanto scritta: sono ben più disposte a
parteciparne e diffonderne il dettato, come sintesi pregnante da condividere con
i familiari e le correligionarie, da proporre all’attenzione ed alla
sensibilità dei laici, popolani ed aristocratici, perché costituiscano il
lievito di una coscienza rinnovata.
Gli episodi estatici vengono solitamente descritti dalle testimonianze
sbalordite e commosse dei confessori e delle consorelle, raccolti dalla penna
fedele dei biografi e consegnati all’agiografia; più raramente, se ne trova
traccia nei testi autobiografici o negli epistolari.
Si tratta dunque di descrizioni esteriori, attente a cogliere i dati
esteriori che meglio si prestano a differenziare l’esperienza mistica rispetto
alle pratiche di disciplinamento e di preghiera più comuni e condivise: viene
solitamente evidenziato il totale distacco dalle cose terrene, la perdita di
conoscenza e di coscienza, l’irrigidirsi del corpo, il calo termico ed il
rallentamento del ritmo cardiaco, l’attenuarsi della respirazione, la
sospensione angosciante delle funzioni vitali.
I testi descrittivi propongono la ricapitolazione dei dati percepiti dagli
osservatori, enumerandoli ed argomentando senza poter dare risposta
all’interrogativo di fondo, che chiede motivazioni ardue in ordine alla vita
spirituale.
La sostanziale passività dell’esperienza mistica si correla dunque al
forte impegno manifesto nell’attivismo profetico, costituendone il presupposto
necessario.
Quando tale esperienza si sedimenta e si traduce nella scrittura, produce
esiti di grande significato religioso, approdando ad un linguaggio corposo,
dotato di uno spessore carismatico notevole che stilisticamente riproduce i
timbri dell’omiletica e della liturgia, anche quando l’autrice, compiuta
l’esperienza mistica, conosciuto l’annichilimento estatico, si rifiuta di
presentare sé stessa come soggetto tendendo piuttosto all’annientamento di sé,
riducendosi a creatura tra le creature.
L’accento si sposta dalla percezione esteriore, così come è
partecipata attraverso l’altrui testimonianza, all’evocazione interiore che
travalica addirittura il ricorso alla memoria, facoltà
umana, troppo umana, che la mistica trascende: l’ineffabilità
dell’esperienza genera dunque forme alternative di espressione, che percorrono
ogni campo della retorica, mettendone a frutto le norme rese flessibili e
duttili a rendere il senso più profondo, atto alla comunicazione simbolica.
Vanna da Orvieto traccia un percorso a sé stante, utilizzando addirittura
il corpo come strumento del dialogo con il divino e dell’intermediazione tra
Dio e l’umanità.
Il suo ricorso al mimo,quasi metamorfico per l’intensità del gesto,ha
una duplice valenza, proponendosi come mimesi nel rapporto duale con Dio,
risolvendo a priori il problema di comprensione e comunicazione che il processo
di “indiamento” inevitabilmente comporta.
Ma l’atto estremo legato alla comunicazione corporea supera addirittura
la gestualità, raggiungendo con Margherita da Città di Castello il livello
fenomenico della stigmatizzazione plastica.
I testi biografici che narrano la vicenda spirituale ed umana della cieca
della Metola implicitamente confermano la sua consapevolezza di quanto
interiormente le accade: assai di frequente, infatti, Margherita si rivolge ai
familiari ed ai suoi molti estimatori ripetendo la frase “Sapeste cosa ho nel
cuore!”
Solo l’esame necroscopico rivelerà la coerenza e l’intensità
dell’espressione, che assume valore tautologico secondo lo stile più alto
della scrittura delle mistiche.
Nei precordi della Terziaria Domenicana vengono infatti rinvenuti tre
globuli nei quali sono modellate le immagini della Natività, l’evento
centrale dell’incarnazione del Cristo da cui ha origine la salvazione
dell’umanità.
Il mistero della nascita di Cristo è ben presente, accanto alla
sofferenza della Passione, alla coscienza delle mistiche domenicane.
Così, ad esempio, vengono decritte le rivelazioni della Natività e della
Passione alla Terziaria Benvenuta Bojanni (1255/1292) nel testo della Vita,
attribuito a Corrado di Castellerio e riprodotto negli Acta
Sanctorum.
Il primo brano si riferisce alle revelationes
factae a Christo ed Deipara Virgini: Benvenuta è nella chiesa di San
Domenico, davanti all’altare di San Pietro Martire. E’ la notte di Natale,
una fredda notte battuta dal vento di tramontana, e la Terziaria medita, accesa
da un intenso sentimento, magno
compassionis affectu et desiderio devotionis accensa, sulla sofferenza della
puerpera e del neonato Gesù, in una notte lontana nello spazio e nel tempo, che
immagina altrettanto rigida.
La distoglie dalla contemplazione una donna,accompagnata da un uomo
anziano, che tiene in braccio un bambino e la invita a tornare a casa: là vedrà
ciò che così intensamente desidera.
Dunque, Benvenuta obbedisce e, chiusasi nella sua stanza, gode della
visione della beata Vergine che le porge il Bambino e lo affida a lungo alle sue
braccia.
Alla gioia intensa che si distilla nel cuore seguono altri sentimenti, che
portano Benvenuta Bojanni a condividere le pene di Maria, angosciata per lo
smarrimento del figlio nel Tempio, prefigurazione del più crudele dolore,
rivelatole durante la Settimana Santa.
In questa circostanza, la Terziaria sperimenta in spirito la bilocazione
assistendo e partecipando agli eventi: “omnia
quae circa Passionem Domini gesta sunt ita integraliter et aperte vidit, ac si
fuisset ibi cum corpore et anima quando facta fuerunt.
Et his per ordinem visis, reversus est spiritus ad corpus suum
secum ferens dolorem Passionis Christi, quem habuerat extra corpus existens”(AA.SS.Oct.
XIII).
E’ caratteristica precipua di Benvenuta Bojanni la condivisione del
dolore materno, in una sorta di singolare imitatio
Virginis, che rivela una straordinaria sensibilità in coerenza con la
particolare devozione che l’Ordine Domenicano coltiva fin dalle sue origini
verso la Madonna, come attestano le Vitae
Fratrum, i canti devozionali e le litanie in suo onore.
Più diffusa è indubbiamente l’imitatio
Christi, che ricorre nell’esperienza di Vanna da Orvieto, la quale gode e
lamenta nel contempo l’ineffabilità della visione, “fervore sancto ebria”, condivisa nella malattia da Villana delle
Botti, che si unisce nella propria sofferenza al Cristo crocifisso.
Il duplice legame con Cristo e con Maria si intensifica ancora per
Domenica da Paradiso (1473/1553), che vive il carisma domenicano senza però
aderire formalmente all’Ordine, coltivando una profonda fede ed una
straordinaria esperienza mistica.
E’ Cristo stesso a guidare Domenica nella comprensione e nella
condivisione del ruolo fondamentale rivestito da Maria nella teologia e nella
storia, riproponendo il tema della identificazione metaforica della Vergine e
del tabernacolo: “Quegli dua fonticegli,
o sposa mia, ornati di quelle preziose gioie, dalle quali esce tanto bello
splendore, significano le mammelle della mia gloriosa madre, con le quali ero da
lei lattato e nutrito di quel preziosissimo, dolcissimo e candidissimo latte. Ma
donde veniva, o sposa, questo latte della benigna e gloriosa madre mia? Veniva
dai cibi con i quali ella era nutrita. e ci sono molte donne che danno il latte
per i buoni e delicati cibi, e di gran nutrimento il buon latte si genera e di
dilicato sapore. Così nella mia gloriosa madre questo suavissimo latte, di
suavissimi cibi e di mirabile nutrimento si genera, coi quali lei si nutriva.
Mangiava tanto suavi cibi d’amor, cibi d’orazione, cibi di penitenzia.
Di questi tanti cibi con
abundanzia era in lei generato il candidissimo latte. onde, o sposa, dopo che mi
crebbi nel suo castissimo e purissimo ventre concepito, spendeva del continuo il
tempo suo in frequenti orazioni e rendimenti di grazie e in sospiri. E subito
che io fui nato e uscito di quella carcere, l’avresti veduta ponersi
ginocchioni adorandomi, rendendomi infinita grazia. E quegli rivoletti delle sue
delicate vene subito corrono in questi onorati fonticelli. E lei, pigliandomi
nelle sue preziose mani e nelle preziose braccia, e quelle gemmoline tanto
splendenti mi poneva alla bocca; ed io poppando gustavo di quel dolcissimo
soavissimo latte. (...)io mi pascevo dilettandomi
delle sue buone opere che tanto mi piacevano e mi parevano suavi; per la qual
cosa pigliavo quelle gemmoline e grandemente succiavo.
Ancora io, sposa, che sono
padre, ho le mammelle piene di latte; e chiamo i miei figlioli che vengano a
poppare il latte mio perché i miei fonticegli sono sempre pieni che traboccano.
E le mammelle e le fonti che io
ho sono le grazie e la divinità mia. insieme chiamo dunque tutti i miei
figlioli e loro porgo alla bocca i miei capezzoli. Questi capezzoli sono le mie
buone ispirazioni; onde sprezzano loro mordendogli le distrazioni e lasciano
perdere il latte mio tanto suavissimo e dolcissimo, e si cibano d’un latte
pieno di veleno, che sono i vizi ed i peccati loro, e mandano dacanto la mia
santa grazia, e non si trova quella con il mio libero arbitrio, e non lo
succiano. Il latte mio adunque non gustano, ma sì ben si cibano di cibi
transitori e profani e del continuo in quegli si affaticano, mai non si
riposano, e di questi si nutriscono. Ma questi che si rivolgano a me e alle mie
mammelle e che succiano il latte di miei papilli, questi io sazio, gli
fortifico, gli dò la vita eterna”(Firenze, monastero della Crocetta, ms. P. f 28r).
Domenica da Paradiso, che si definisce sposa di Cristo, si nutre di quel
latte e ne ottiene una goccia dal sapore “tanto
suave e tanti mirabili e variati odori gettò fuori che l’esultanzia fu in
modo che con le parole non si potria narrare”(ivi, f. 59r).
Ancora una volta, viene ribadita l’ineffabilità dell’esperienza
mistica nel dialogo tra Domenica ed il Cristo: “Sposo
mio, in che modo potrò io raccontare tutte queste belle cose? non so trovar
nulla che vi sia per poterle assimigliare, né ancora i vocabuli stessi per
narrare tutte queste belle cose e non ritrovo, non sono nel mondo simiglianze
nessune delle cose di quello e nissuno vocabulo che s’affaccino e assomiglino
a questa cosa.
Allora il Signore Iesù Cristo
disse: Sposa mia, non è lingua alcuna che simil cosa possa in nessun modo come
le sono narrate, intelletto non è che le possa comprendere, né orecchio che
udir le possa. Per la qual cosa ben qualche cosolina ne dirai, poco ne narrerai”(ivi).
Domenica da Paradiso coglie e riesce a trasmettere nel suo testo il senso
profondo della dualità tra i generi che si compendiano nel Divino, mutuando
dalla lingua e dalla pratica dell’oralità i registri formali più diretti e
persuasivi.
Pur rifiutandosi al destino biologico della maternità, Domenica da
Paradiso ricorre ad un linguaggio evocativo dell’esperienza corporea della
gestazione e del parto, del nutrimento mediante la pratica dell’allattamento,
pur precisando che il latte in questione è distillato da amore, orazione,
penitenza.
Il corpo stesso di Maria è assimilato ad un tabernacolo, composto da una
coppa poggiata su una rosa, con canali e colonne, su cui è sospesa una lampada
con ai lati due fontanelle.
La simbologia è semplice ed immediata: la coppa e la rosa rappresentano
il grembo verginale di Maria, il cuore è la lampada sempre accesa, le vene e le
ossa sono raffigurate dai canali e dalle colonne, le due fontanelle sono i suoi
seni, fonte di alimento spirituale per la comunità dei fedeli.
E’ pertanto evidente che costantemente le donne di alta spiritualità
che condividono l’esperienza mistica si dispongono a recepirla attraverso il
filtro della loro corporeità incontaminata, che sa farsi di volta in volta
strumento di conoscenza e di intermediazione.
L’assimilazione si gioca sul duplice versante del rapporto tra maternità
e condizione filiale, riconoscendosi nelle pene di Maria e perdendosi nella
contemplazione della sofferenza di Cristo, frequentemente condivisa
nell’estasi.
Così ad esempio si verifica la perfetta unione tra il corpo Cristo ed il
corpo di Stefana Quinzani (1457/1530), secondo il testo della Relazione
dell’estasi della Passione (1497):
“ A laude e gloria del summo ed
imortal Idio, e corroboratione de la sancta catholica fede e edificazione de li
fedeli cristiani. Sia noto e manifesto a ogni persona che lezerà o vero che
olderà lezere la presente, come nel anno corrente de la nativitade del nostro
redemptore Christo Iesu millequattrocentononantasette, in la nobile terra de
Crema de la diocesi parte de Piasenza e parte de Cremona, posta in Lombardia
sotto el dominio de la illustrissima signoria de Venezia, in casa de uno
zentilomo da Crema nominato Zamfrancesco Verdello in la parocchia de San Iacomo,
se ritrova una devota e sancta dona piena de virtude e sancte operazione,
nominata sore Stephana di Quinzani da li Urcii novi de la diocese de Bressa, del
terzio abito del sancto e divino ordine del patriarcha san Dominico, a la quale
da poi le grandissime e inenarrabile visione et revelazione divine il maximo et
onnipotente Idio ogni sexta feria li comunica tutti li misterii de la passione
del redemptore dell’universo Christo Iesù in questo modo e forma.
Primo, facta la aurora, secundo
che se pò comprehendere per el parlare de essa sore, rapta in spirito e
temptata dal demonio in varii e diversi modi e representazioni, e maxime circa
la sancta fede, circa la forteza, dicendo che non poterà supportare tanta
passione, e etiam circa la vanagloria dicendo - tanti te venero vedere, tu voi
che dicano che sei sancta - E questo diven per spazio di meza ora. A le quale
temptazione questa sancta dona fa grande resistenzia, dasendo repulsia al
demonio.E questa in estasi e rapta in spirito parla intellegibilmente
respondendo a caduna oppugnazione e temptazione del demonio e tandem cum el
divino aiuto prevale contra esso demonio. Da poi è ligata cum le mane sopra el
capo cum ligami insolubili tamen invisibili, cum li pedi come fu Christo a la
columna. E tunc è flagellata invisibiliter: secundo che se può comprehendere
per li movimenti exteriori visibili, movendosi tutto el corpo per meza ora,
excepto li pedi e le mane, le quale stano immobile come fosseno ligate cum corde
reale a una columna.
E molti de li astanti feceno
experienzia de voler movere uno brazo da l’altro e mai non fu possibile, licet
facesseno pluries grando sforzo. Imo non era possibile che gli potesseno mover
uno digito. E sta ligata in questa forma quasi una ora. In tanti tormenti e
afflizzioni, cum lamenti et sodpiri piatosi, che no è cor umano che potesse
pensare né intendere se non vedesse cum li occhii corporali, né etiam vedendo
cum lingua umana pienamente explicare.
poi facto intervallo di circa
meza ora, li appare Christo Iesù secundo che se può comprehendere per li gesti
devoti e parole sancte de essa sore, el quale conforta e exorta a la tolleranzia
de la passione. Al quale stando in estasi cum grandissima devozione gli responde:
- Signore, non sum digna de patir questa sanctissima passione: ma sempre sia
facta la vostra sancta voluntà, Signor.- E dicto questo, è ligata cum le mane
susa el pecto cum ligami invisibili et immobili, come è decto de sopra, in
quello modo che stava Christo Iesù ligato devante a Pilato; poi aperiva la mano
dextera como pigliasse la cana stringendo poi quella immobiliter; e poi stando
in contemplazione <se> Christo Iesù gli offerisse la corona de spine. E
lei gli responde cum grande letizia e umilitade: - Signor sì che la voglio. -
Poi se leva e cum grandissima reverenzia e devozione, receve la corona de
spine sopra el capo suo, cum tanta pena dolore e tormento e tremore, che è
impossibile ni cum calamo ni cum lingua umana explicare essi tormenti e lamenti
piatosi, per uno quarto de ora; e resta tuta in sudori dal capo per sino a li
pedi. Poi cessa e resta immobile rapta in spirito, e tunc, in questo rapto, se
li è toccato el fronte etiam levissimamente cum uno filo o altra cosa piccola,
como più volte è facto experienzia, statim ritorna susa li dolori stridori e
lamenti pristini per li dolori grandi de la corona.
Poi è dissolta e sta per mezza
ora in contemplazione. Nel qual tempo combatte la rasone cum la sensualitade
expectando la passione de la santa croce, e dice: - Ah poverina, non aver pagura,
risguarda el tuo Signore el quale è tuto sangue dal capo per sino alli pedi. Se
te rincresce la pena, risguarda el premio. Lassa venir la rasone in campo. - Da
poi vede la croce e sta cum li ochii fissi et immobili verso essa croce,
dicendo: - O redempzione granda, o redempzione umana, o salutifera croce, tanto
tempo te ho desiderata. - Poi se leva in verso essa croce e cum grandissima
devozione e letizia abraza e basa essa croce invisibile como se corporaliter
fosse presente la croce. Poi visibiliter gli è esteso el brazo destro como se
fosse inchiodata la mane realiter et immobiliter, e statim si vedeno li nervi
tirati et extensi, le vene ingrossate e le mano se fanno nigre, e como li fosse
inchiodata la mane cum chiodi materiali fa un crido terribile cum lamenti
lacrimabili e piatosi.
Poi gli è exteso el brazo
sinistro in simile forma e modo como el dextro, tamen assai sopra la lungagine
sua naturale.
Poi le sono extensi li pedi colocando el
dextro sopra el sinistro e nel tirar de li pedi tuto el corpo se move in zoza
excepto le mane, le quale restano totaliter immobile nel luco dove sono
inchiodate como fusseno cum veri chiodi de ferro chiodate supro uno ligno
immobiliter. E sopra el pede dextro, collocato sopra el sinistro, gli appare
rosso tanto quanto sia un marcello, e quando è chiodata la mane sinistra manda
uno crido cum lamenti piatosi como nel chiodar de la prima mane dicto, e simile
crido e lamenti fa quando li sono chiodati li pedi. E facto questo resta poi
immobiliter extensa in croce in modo de Cristo Iesù crucifixo, e facto breve
intervallo pare che beva como fece Christo cum la sponga lo aceto e fele. Et
iterum facto breve intervallo contremisse, in modo che pare che la manda
l’anima fora del corpo. Poi resta immobile per alquanto spazio de tempo e poi
fa grande commozione cum cridori e pii lamenti, in modo che sia percussa cum la
lanza nel costato, e poi resta in modo che pare morta. Tutto el tempo che la sta
in croce è circa un ora.
Poi le sono deschiodati primo
la mano dextra poi la sinistra e ultimo li pedi.oi secundo che comprehendemo per
li gesti exteriori e sue parole, li appare Christo Iesù, al quale referisse
grandissime grazie del dono della sanctissima passione a li communicata, facendo
grande orazione e riccomendazione ad esso Iesù Christo cum grandissima
devozione. Arricomandandoli prima l’anima sua e lo stato ecclesiastico
generalmente, e spezialiter el stato de tuti li prelati pregando Idio li voglia
illuminare, che posseno bene reggere e gubernare le pecorelle a lor commisse (...) Poi
prega singularmente per lo ordine del terzio abito di san Dominico. Dicendo: -
Signor, questo abito sancto è uno thesoro ascosto e non è cognosuto, prego ve
sia arricomandato. - Poi prega per el stato de la Italia cum lacrimis e per
alcuni stati in particolari e spezialiter per Crema e per alcuni a lei
spezialiter recommissi. E iterum li arricomanda l’anima sua, e ancora prega
per li padri che hano cura de lei: e per tuti li peccatori, maxime per quelli,
che l’avessero offesa, pregando Idio li voglio perdonare e illuminar le lor
mente perché non sano che se faceno. Postremo cum instantia grandissima prega
Christo Iesù dicendo: - Signor, prego me voliati tor questa pena la quale io
patisco visibilmente e darmi ogni altra etiam mazore, la quale sia occulta, a ciò
non sia mai cognosuta in questa vita - dicendo etiam - Signor, non me rencresse
patir qualunque pena per vostro amore, ma non voria esser cognosuta. Per tanto
ancora ve prego, Signor mio caro, me voliati tor questa pena e passione
visibile, e darme ogni altra pena mazore, la quale io patisca secretamente pur
che non sia cognosuta. - Poi cum grande modestia, devozione et ilaritade se leva
e domanda umelmente la sancta beneditione a Christo Iesù. Qua accepta ritorna
dal rapto a li proprii sentimenti corporei e patisse tuta dicta passione sempre
stando in estasi”(Affò, vol.I, pp.55-61).
Il protocollo notarile a cui è affidata la relazione riguardante gli
episodi estatici di cui è protagonista Stefana Quinzani, fondatrice della
comunità di Soncino intitolata a San Paolo e Santa Caterina, evidenzia
l’oggettiva, incolmabile distanza che intercorre fra l’esperienza mistica e
la sua trascrizione testuale, benché l’estensore del testo s’impegni a
testimoniare puntualmente e si adoperi a ricercare un linguaggio adeguato
ricorrendo ad un registro formale alto, latineggiante nella forma, attento a
cogliere dettagli di indubbio interesse.
Riflettendo su quello che Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi chiamano
“l’alfabeto delle mistiche”, torna alla mente la descrizione classica che
l’enciclopedismo pagano dette del rapporto intercorrente fra dialettica e
retorica, rifacendosi ad un celebre detto di Zenone, secondo il quale le due disciplinae
erano paragonabili alla mano di un uomo, l’una ad un pugno stretto, l’altra
ad un palmo aperto, “illa brevi oratione
argumenta concludens, ista facundiae campos copioso sermone discurrens; illa
verba contrahens, ista distendens”.
Se però l’esperienza sublime della mistica viene ad assimilarsi alla
pregnanza concettuale della logica per l’intensità cognitiva e
l’affinamento dei livelli di astrazione, non altrettanto può avvenire per
quanto concerne la conseguente esplicitazione dei significati.
L’ineffabile rimane tale, al di là dell’impegno dei biografi e forse
della stessa volontà delle mistiche, che coltivano nel cuore il dono che hanno
ricevuto.
Prestando la loro voce alla testimonianza profetica, ne offrono però il
frutto con la generosità che le contraddistingue, poiché - come dice fra
Giovanni Caroli a proposito di Villana delle
Botti - “avendo (...) disprezzate
tutte le cose terrene, la (loro) mente, fissa a quelle celesti, meritò di essere eccellente scopritrice
degli arcani celesti”.
LA
SUBLIMAZIONE DELLA SOFFERENZA
Dalle note biografiche di queste donne dotate di un’intensa spiritualità,
accomunate dalla convinta adesione al Terz’Ordine della Penitenza di San
Domenico in un lungo arco di tempo che racchiude trasformazioni profonde
nell’organizzazione politica e nell’assetto sociale, tali da riverberarsi
nella concezione e nella condivisione di valori che esse intendono in qualche
misura orientare e contribuire a diffondere, emerge come costante un
atteggiamento imitativo della sofferenza del Cristo incarnato e fatto uomo, che
paga con l’estremo sacrificio il prezzo della riconciliazione tra Dio e
l’umanità.
L’imitatio Christi non è per
costoro semplicemente un tema di meditazione o di rappresentazione nelle tante passiones
che occupano un posto intermedio fra teatro e devozione, promosse da parrocchie
e confraternite tra i riti della Settimana Santa.
E’ piuttosto un conato di condivisione, un impegno a ripercorrere le
tappe salienti della vicenda terrena di Cristo attraverso la mortificazione
della carne: si tratta per alcuni tratti, i più esteriori, di un retaggio del
medievale contemptus mundi,
sostanziato da radicali scelte di vita e da pratiche penitenziali di estremo
rigore.
Pronunciando i voti, impegnandosi a seguire la regola di Munio di Zamora, Regola
dei fratelli e delle sorelle della Penitenza di san Domenico, fondatore e padre
dei Frati Predicatori, queste donne vestirono un abito, condivisero le
preghiere e le norme di astinenza, imitarono l’apostolato come “figlie
predilette di San Domenico nel Signore, (...) emulatrici ed ardenti zelatrici,
secondo il proprio stato, della Verità della fede cattolica”.
La chiave di lettura attraverso cui può meglio comprendersi il senso ed
il modo in cui fra il XIII ed il XVI secolo una genealogia di Terziarie
Domenicane praticò la conversione del cuore, secondo lo spirito della penitenza
evangelica, sta proprio nell’inciso “secondo il proprio stato”.
Alcune di costoro, come Sibillina da Pavia o Margherita da Città di
Castello, portano già inciso nel corpo lo stigma della sofferenza, altre, come
santa Caterina da Siena o Lucia da Narni, Stefana Quinzani o Caterina de’
Ricci, condividendo mediante la stigmatizzazione i dolori della Passione.
Inoltre, va notato come alcune di costoro continuarono a vivere la loro
vita nelle loro case, accanto ai loro familiari, condividendone la quotidianità
dell’esistenza, altre invece contribuirono attivamente a sostanziare lo
spirito di famiglia proprio del Terz’Ordine impegnandosi a vivere in comunità
secondo il carisma di San Domenico.
Questa pluralità di prospettive implica la necessità di analizzare più
da vicino i nessi che legano le vicende individuali che hanno segnato la vita di
costoro ad una comune visione spirituale, che si sostanzia nella pratica
penitenziale.
Le Terziarie Domenicane che incidono una traccia nella storia religiosa e
civile del loro tempo condividono una scelta di vita radicale, che si manifesta
essenzialmente nella negazione del destino biologico che sostanzia nel
matrimonio e nella maternità la vita femminile.
Alcune di esse, come ad esempio Villana delle Botti, maturano la loro
vocazione religiosa attraverso un’esperienza matrimoniale che le fonti
biografiche non esitano a descrivere come dissipata ed indifferente alle istanze
spirituali.
Altre,come Lucia da Narni, impongono nel matrimonio la loro scelta di
castità, approdando alla pratica religiosa dopo il definitivo fallimento di un
tentativo estremo di conciliazione tra due forme di vita troppo distanti tra
loro.
E’ quantitativamente più consistente il numero di quelle giovani che,
animate da una vocazione precoce, pronunciano con convinzione il voto di castità
e rifiutano il matrimonio, spesso affrontando per questo le ostilità dei
familiari, che preferirebbero affidarle alla responsabilità ed alla custodia di
un marito, piuttosto che saperle isolate, condannate sia pur volontariamente ad
una condizione socialmente irregolare.
Spesso è per loro motivo di sofferenza la necessità di rifiutare
l’obbedienza all’autorità paterna, per aderire ad una più alta volontà.
La scelta è d’altro canto inevitabile e viene sostenuta dai confessori
o dalle stesse comunità di religiose in cui trovano conforto morale ed esempio
di vita.
Il conflitto interiore trova espressione, sollievo e risoluzione nelle
pratiche penitenziali del disciplinamento e del digiuno, nella volontaria
privazione di comodità e conforti materiali.
Pur vivendo in intensa e costante simbiosi con la vita secolare, tanto
nella propria casa, quanto in monastero, le Terziarie Domenicane tendono a
ritagliarsi degli spazi fisici di isolamento, nella propria stanza come nella
propria cella, ricorrendo in alcuni casi ad utilizzare cantine e soffitte, come
fanno Vanna da Orvieto o Margherita da Città di Castello, come luoghi riservati
alla mediatazione ed alla preghiera.
Non è dunque la chiesa, pur frequentata assiduamente, l’ambiente
privilegiato per coltivare la propria spiritualità, quasi a voler ribadire i
significati profondi di una presenza attiva.
Quando, come accade a Lucia da Narni dopo il declino della sua autorità
presso il monastero di Santa Caterina di Ferrara, l’isolamento si fa
coercitivo, la sofferenza viene offerta in espiazione dei peccati.
I lunghi anni di isolamento, dal capitolo che nel 1505 la destituisce da
ogni carica e privilegio fino al 1544, anno della morte, vengono dedicati da
Lucia da Narni alla meditazione ed alla scrittura, in cui vengono a decantarsi i
fatti della sua vita e le tensioni che l’hanno travagliata.
Al testo dell’autobiografia, composta a pochi mesi dalla morte, si
aggiungono i versi di un’intensa preghiera, da cui si evince in tutta la sua
complessità il senso del messaggio di pace, frutto di una speculazione
intellettuale confermata dall’intuizione mistica, a cui è affidata una
sublime eredità spirituale:
Io son piena di miseria. Tu di bontà.
Ogni cosa è tua, li peccati son mei.
Amore, amore
che accende tutto il mondo.
Dà, maestro mio, pazzo è chi non te ama.
Sì, sì, maestro, maestro. Pazzo è chi non te ama.
Maestro, te piace de dire, chi è quello che te dispiace.
Caro maestro mio, piena son de defetti.
Voria, maestro, esser fondata in te; ma non son.
Ch’io meritaria che la terra me profundasse.
Digna delle pene, indigna de li meriti.
Della ruina di questo mondo, io ne son causa.
Meriteria la eterna dannazione, ma prego che tu mi perdoni.
Io son piena di offesa de li toi doni.
Che cosa azzo fatto in questo mondo, se non male.
Se a te piace voria che tu mi dichiarassi,
quello che l’altra notte mi hai detto.
Non intendo quel vodo. El mio padre San Dominico dice
che consiste nell’uno e nell’altro.
Non te ho ditto, ch’io te voglio sacrificare la mia voluntade.
Non te voria più offendere, he’ he’ maestro, non ho fatto
quello che tu meriti.
Non ho fatto la confessione con umilitade, l’ho fatta
ignorantemente,
ma a te piace di laudarla.
Te raccomando tutti li miei inimici, e tu perdona a quelli.
Te raccomando tutti li miei benefattori.
Te raccomando la tua sposa imaculata.
Te raccomando tutte le mie sorelle.
Non me fare secondo la tua iustitia, ma secondo la tua misericordia.
Io te prego che tu la facci a tutto il mondo,
perché ne ha bisogno.
Questo si è lo mio sposo, el quale tutto il mondo l’offende.
Io te prego che mai non te parti dalla mia memoria.
Ma più presto perda la vita.
Da che procede tanto dolore dalla mia confessione,
dalla causa della cognizione.
La qual cognizione è in me, ch’io non cognosco le mie miserie.
Maestro, dammi la tua benedizione.
Amen
Non conosciamo la data di composizione di questo testo, riportato nella
biografia di Lucia da Narni curata da Tommaso Maria Granello e di qui citato
nella raccolta “Scrittrici mistiche italiane” a cura di Claudio
Leonardi e Giovanni Pozzi (1988).
Lucia da Narni percepisce sé stessa come capro espiatorio, o meglio come
agnus Dei, assumendo consapevolmente le colpe e le responsabilità di cui
l’umanità si è macchiata nella corruzione dei tempi.
“Peccati” e “defetti” sono gli elementi che la rendono “digna
delle pene” alle quali, nell’ansia di purificazione che la pervade, non
vuole sottrarsi, sentendosi anzi “piena de li (...) doni” che la divina
provvidenza profonde.
Con il rigore di una penitente, Lucia da Narni ripercorre e ricapitola le
colpe di cui si è macchiata: il testo appare dunque fortemente allusivo,
stilisticamente coerente con il dettato della letteratura d’ispirazione
mistica.
Dalla pagina traspare la consapevolezza di trovarsi in una condizione di
aridità, in una fase particolarmente critica e delicata dell’itinerario di
perfezione, quando la sola “cognizione” di cui la monaca è capace è
l’amara consapevolezza di non riuscire neppure a scandagliare le sue miserie,
tanto da accostarsi al sacramento della confessione senza la debita “umiltade”,
ma, appunto, “ignorantemente”.
Il sacrificio sublime del libero arbitrio è rimasto inespresso, non del
tutto compiuto: “non te ho ditto, ch’io te voglio sacrificare la mia
voluntade”.
Lo stesso dettato Domenicano resta per Lucia da Narni un enunciato che
sfugge nella sua integrità, che resta ancora da scandagliare fino in fondo.
Consapevole delle sue incapacità, dell’inadeguatezza dei suoi mezzi,
invoca allora per sé e per l’umanità tutta la misericordia di Dio: “Non me
fare secondo la tua iustitia, ma secondo la tua misericordia. Io te prego che tu
la facci a tutto il mondo, perché ne ha bisogno”.
L’intenso distico della preghiera pronunciata dalla Terziaria conserva
un’eco dell’esposizione savonaroliana del Pater
noster: “E qui noi diciamo
<Liberaci dal male>, ossia dalle afflizioni e dalle avversità, affinché
non ce ne capiti di così gravi da non poterle sopportare. E anche quelle che
sono tali, fa che noi le possiamo affrontare con la tua grazia, liberandocene
nelle debite maniere: ossia facendo seguire la consolazione, donando in seguito
alla loro sopportazione molti beni spirituali; fortificando le virtù” e
ristabilendo la calma dopo la tempesta. Volgi le tribolazioni a nostro
vantaggio, affinché tu apparisca sempre glorioso nei tuoi santi, che tu dopo la
prova coroni nei cieli, dove vivono con te nei secoli dei secoli. Amen”.
Sentimenti vicini a questi vengono espressi da Stefana Quinzani in una
preghiera riportata dal Razzi nel testo della Vita a lei dedicata:
“Dico mia colpa della grandissima mia ingratitudine verso la vostra
divina maestà, la quale eternamente mi preordinò nella mente sua creatura
umana, e nel tempo poi debito mi produsse.
Dico mia colpa della conservazione nel ventre materno, che ne
sono ingrata; così del beneficio del battesimo e del libero arbitrio
conservatomi, che non abbia tante volte acconsentito al peccato.
Dico mia colpa della ingratitudine della redenzione mia,
nella quale e la divinitade e l’umanitade venne disprezzata.
Dico mia colpa dell’ingratitudine della custodia angelica,
la quale spesse volte mi avete fatta vedere, eziandio corporalmente.
Dico mia colpa della mia tanta ingratitudine per
gl’infiniti doni e grazie, che mi avete sopra ogni mio merito conceduti, della
cognizione della vostra maestà, della familiarità coi santi e della
communicazione dei dolori della tua passione, Signor mio.
Ancora vi adimando che mentre starò in questa vita, io non
sia conosciuta: ma poi che il corpo sarà nella sepoltura, e l’anima appresso
di voi, anco all’ora sia fatta la volontà vostra sopra di me”.
Abbiamo già diffusamente analizzato il senso profondo che la condivisione
della Passione assume per Stefana Quinzani, che ambisce all’annientamento di sé,
al nascondimento non solo rifiutando gli onori mondani che le sono promessi alla
corte dei Gonzaga, ma chiedendo addirittura di celare le esteriorità
dell’estasi per viverne intimamente il mistero: la pagina che riferisce della
sua preghiera, incentrata sull’analisi concettuale dell’ingratitudine,
intesa come tratto comune di un’umanità in cammino, illumina il testo dal
vago sapore notarile che ne descive esteriormente l’esperienza mistica.
Sta di fatto che la sofferenza, quale che ne sia la causa, è mezzo
elettivo per liberarsi dei condizionamenti del corpo fisico, delle convenzioni
del corpo sociale: ciò è altrettanto vero per chi soffre delle malattie e
delle menomazioni, come per chi soffre sperimentando i dolori del Cristo, le
angosce di Maria.
Villana delle Botti, dopo aver pienamente recuperato la propria fede, è
frequentemente vessata nel corpo da febbri frequenti ed altissime, squassata da
dolori lancinanti che sopporta con autentico spirito di rassegnazione.
Gode anzi del suo male fisico, che in qualche modo l’aiuta a riscattarsi
da un passato di dissipazione.
Così, a volte vieta al suo confessore di pregare per la sua guarigione o
prega essa stessa perché i suoi mali si moltiplichino.
E’ ancora leggibile in filigrana, nella Legenda di Villana delle Botti l’atteggiamento altomedievale del
contemptus mundi, che si manifesta nel disprezzo di una corporeità in
precedenza incautamente coltivata.
Così padre Stefano Orlandi in un suo saggio del 1955, La beata Villana - Terziaria domenicana fiorentina del sec. XIV,
trascrive la volgarizzazione della Vita
della b.Villana, seguita dagli stessi Bollandisti nella stesura degli Acta
Sanctorum, riferendo del “Martirio
incruento” subito dalla Terziaria dopo la conversione del cuore: “Sebbene
(...) non abbia terminato la vita
sotto la spada dei tiranni, tuttavia sostenne i dolori di una vera passione, a
causa di un profondo e lungo languore del suo corpo.
Fu spesso malata, presa da
freguenti febbri e da dolori acutissimi. Ed è ben difficile poter dire con
quanta pazienza e desiderio di soffrire li sopportasse.
Si dice anzi che ella proibisse
al suo confessore di pregare per la sua guarigione.
Altre volte sentendo alleviato
il suo male, fu sentita pregare con gemiti il Signore perché ciò non
accadesse, ma che fosse afflitta da un male raddoppiato. Ed il Signore,
ascoltando le sue preghiere, afflisse subito con febbri tanto ardenti quel suo
corpicciuolo, che sembrò giunto il termine della sua vita.
Rendendone perciò grazie a
Dio, erompeva con voce gioiosa in lodi devotissime.
Né ciò deve recare
meraviglia, perché Villana vedeva chiaramente che Cristo crocifisso, presente
corporalmente, l’assisteva, ai cui dolori ella essendo unita, dimenticava i
propri.
Dopo l’apparizione di Cristo
crocifisso vide apparire la Vergine Maria circonfusa da gran luce e accompagnata
da un gran numero di Vergini, tra le quali la sua santa prediletta Caterina, che
portava nelle sue mani una preziosissima corona, da dare a lei in premio, se
avesse perseverato nella pazienza.
Diceva infatti la santa: - Sii
costante, o dilettissima, perché io serbo per te in Cielo questa corona . -
E la consolava, non tanto per sollevarla dalle pene che soffriva, ma per la
visione di una moltitudine di orribili demoni che poco avanti aveva avuto.
Un giorno Villana, impaziente
della sua liberazione, sapendo ormai prossima la festa di S. Lorenzo martire,
pregava ardentemente il Signore di renderla partecipe nel proprio corpo dei
dolori e delle pene del Santo martire, paziente sulla craticola.
Fu perciò presa subito da
febbri così ardenti, come mai in se’ aveva provato un incendio simile.
Con questa varietà di pene,
volontariamente assunte, con un martirio incruento, consumò tutte le energie
del suo santo corpicciuolo”.
Episodi analoghi, in particolare per quanto attiene alla promessa di
eterna gloria pronunciata da Santa Caterina, sono ricorrenti nell’agiografia
riguardante le mistiche del Terz’Ordine domenicano.
Il testo riguardante Villana delle Botti non si discosta da un luogo
comune che rinsalda però l’immagine genealogica che l’Ordine assume,
coagulando vocazioni intorno alla centralità ed all’indubbia esemplarità
della figura di Santa Caterina da Siena.
Ma se fin qui possiamo legittimamente affermare di trovarci di fronte ad
una sofferenza catartica ed imitativa, modellata sulla Passione di Cristo e
finalizzata ad ottenere la redenzione, tanto sul piano individuale quanto sul
piano collettivo, un ulteriore elemento richiama la nostra attenzione
individuando nella sofferenza una modalità fortemente oppositiva, manifesta
contro gli assalti dell’Eterno Avversario.
Di frequente le mistiche vengono fatte oggetto delle tentazioni del
Maligno: Colomba da Rieti viene presa a pugni fino a perdere un dente, Caterina
Paluzzi (1573/1645) vive tre anni di tormenti interiori ed esteriori, Villanda
delle Botti viene tormentata persino sul letto di morte.
Così il biografo descrive l’episodio, narrato nel capitolo dal titolo Ultima
malattia - Santa morte: “Il fatto da
noi poco sopra riferito della corona per lei serbata in Cielo, faceva ormai
comprendere a Villana che era vicino il termine della sua vita.
Giacendo ella a letto con
febbri, fu colpita da paralisi di tutte le membra. Comprendendo perciò di
trovarsi prossima alla fine, desiderò che le fosse impartita l’Estrema
Unzione.
Ed ecco che pronto venne il
nemico antico sotto la veste di anacoreta, dicendole che aveva portato l’Olio
Santo.
Ma avendolo ella riconosciuto,
raccolte tutte le forze che ancora aveva, gridò: - Vattene, vattene, sanguinosa
bestia; tu sai che Gesù Cristo, dolcissimo sposo dell’anima mia, è qui
presente. Altrimenti ti prenderò a schiaffi. - E il demonio così confuso, svanì;
ma si preparò a ripetere più insidiose tentazioni.
Quando la vide ormai prossima
alla fine, tornò di nuovo sforzandosi di persuaderla che il Signore l’aveva
abbandonata. Ed aggiungeva che se si fosse raccomandata a lui, adorandolo,
l’avrebbe aiutata validamente in quell’estremo frangente.
Ma Villana memore del testo
evangelico, riconobbe nel tentatore Satana, che già tentando Gesù Cristo aveva
detto: tutte queste cose ti darò, se prostrandoti mi adorerai, mostrandogli
tutti i regni del mondo e la sua magnificenza. Perciò con atto energico della
mente, Villana lo spinse ad allontanarsi, dopo averlo meravigliosamente vinto.
Avvicinandosi ormai al termine
della sua vita, erano attorno a Villana uomini religiosi che le leggevano la
passione di Cristo. Quando giunsero al passo ove si dice che Gesù, chinato il
capo, spirò, videro la prediletta di Dio, piegate in forma di croce le mani,
che prima non poteva muovere, subito passare da questa vita.
Nello stesso momento quel sacro
corpo cominciò ad emanare un odore così soave, da non sembrare più la camera
di un malato o di un defunto, ma il negozio di un ricco profumiere.
E quel soave odore vi rimase
per molti giorni, dando a tutti quelli che v’entravano un senso di piena gioia”.
Ricorre con frequenza nei testi biografici riguardanti le Terziarie
Domenicane il motivo della lettura del testo evangelico della Passione di
Cristo, a cui il confessore o le correligionarie ricorrono per meglio
predisporre la morente al distacco dalla vita terrena.
Non di rado, è proprio colei che si approssima al trapasso a consolare i
familiari per la fine ormai vicina, auspicata ed attesa come un dono, da cui avrà
inizio il premio della vita eterna.
Prima di abbandonarsi con serenità e letizia all’estrema condivisione
della sorte del Cristo, Villana compie un ultimo, definitivo atto di volontà
allontanando da se’ le tentazioni diaboliche da cui Satana non intende
desistere.
Il biografo definisce il suo agire come “atto energico della mente”,
affidando alla pregnante espressione il senso profondo dell’esercizio di una
volontà matura ed inflessibile, che sa riconoscere la via del bene ed è
determinata a non smarrirla più.
La scena s’intesse quasi drammaturgicamente sul vetusto canovaccio della
disputa medievale tra l’angelo ed il diavolo, ma stavolta l’anima non è
passivo ostaggio dell’uno, ambito premio dell’altro: i tempi e le coscienze
sono maturi, tanto da confermare anche in punto di morte la consapevolezza di
una scelta di vita irrevocabile.
Un ultimo aspetto merita di essere preso in considerazione: le pie
testimonianze confluite nelle biografie
dedicate alle donne di alta spiritualità che si riconobbero nella Regola delle
Penitenti di San Domenico concordano nel riferire per molte di loro episodi
miracolosi, che portano come conseguenza il mutamento del nome.
Se per Colomba da Rieti, chiamata Angela o Angelella all’atto del
Battesimo, il mutamento è immediato e legato ad un intervento esterno -
l’apparizione di una colomba bianca in chiesa - che resta indipendente dalla
sua volontà, essendosi verificato nella sua prima infanzia, tanto Vanna da
Orvieto, quanto Villana delle Botti appaiono in visione o in sogno a delle donne
di provata fede e testimoniano loro l’accoglienza straordinaria goduta
nell’alto dei cieli, dove il loro essere si è trasfigurato, al punto da
rinnovarsi anche nel nome.
Così Vanna raccomanda alla donna che la vede librarsi verso l’alto,
incurante degli ostacoli materiali che non hanno ormai alcun senso per lei, “Noli
me amodo Vannam vocare, quia in caelestibus Pulcherrima vocor ab omnibus, et non
Vanna”.
Villana si manifesta invece alle cellane del ponte alle Grazie, a Firenze:
“Esse narrarono che in quella stessa
notte, mentre erano in orazione, si videro apparire una donna ornata regalmente
in mezzo ad una grande luce e fragranza di odori, che era due cubiti sollevata
da terra. Sul principio credettero che fosse la beata Madre di Dio, ma
osservando meglio, si accorsero invece che era la prediletta di Dio, Villana,
colla quale spesso avevano conversato con grande devozione. Avendo ripetutamente
domandato chi essa fosse, si dice che rispondesse: - Ora io in Cielo non mi
chiamo più Villana, ma Margherita. - E volendo esse abbracciarle i piedi, la
videro elevarsi sempre più da terra, sottrarsi ai loro sguardi, uscire dalla
finestra della casa, circonfusa di mirabile chiarezza, volare nell’aria,
lasciando dietro di sè una scia luminosa come il fulgore di una cometa”.
Lo stesso biografo, fra Giovanni Caroli, che scrive nel 1452 la Vita
della beata Villana di Firenze, attribuisce alla esplicita volontà di Dio
il mutamento del nome:Villana è accolta gloriosamente in Cielo, dove è
introdotta dagli Apostoli e dai Santi dell’Ordine Domenicano.
L’accompagna la Maddalena, alla cui devozione l’Ordine dei Predicatori
è particolarmente dedito, la cui vicenda terrena richiama alla memoria
la “prosperità mondana” di
cui un tempo Vilana aveva goduto, “studiandosi di piacere più al mondo che al Signore, come un’altra
Maddalena aspirante alla magnificenza della vita, (cominciando) a vestire
splendidamente, con ornamenti di gemme e d’oro, quel suo bellissimo corpo che
avanti aveva fatto invece delizia della penitenza più aspra”.
Così, “terminato l’inno,
fattosi un grande silenzio in Cielo, quell’anima santissima, dopo che ebbe
dato il bacio di pace, sentì proferire da Colui che sedeva sul trono di maestà,
con chiara voce, queste parole: - Vieni, mia dilettissima. Ecco che per
l’insuperabile costanza della tua pazienza, non ti chiamerai più Villana, ma
sarai una preziosa MARGHERITA, sempre aderente nel fregio del mio petto -”.
In termini più generali, possiamo individuare nel cambiamento del nome il
risultato conclusivo di un processo lento e graduale di purificazione e
perfezionamento, intrapreso mediante la sublimazione della sofferenza, offerta
come dono e non semplicemente vissuta come risarcimento per i propri peccati e
gli altrui, accolta come prova quando viene vissuta in relazione ad una
condizione soggettiva di deprivazione sensoriale o di malattia, ricercata come
misura di sé nell’imitatio Christi
che trova il suo modo di manifestarsi attraverso le pratiche di disciplinamento
assai diffuse tra medioevo e prima età moderna.
Con l’imposizione di un nuovo nome nell’alto dei Cieli la palingenesi
è dunque compiuta, e la straordinaria, miracolosa partecipazione dell’evento
alle consorelle assume il valore di un monito, che rende ancor più viva
l’eredità spirituale lasciata dalle Terziarie Domenicane ai loro
contemporanei, diffusa attraverso le memorie biografiche alle generazioni
future.
LA PRATICA POLITICA: PAROLE DI PROFEZIA E DI PACE
Nella complessa temperie che segna il tramonto dell’età comunale,
rivestono dunque un ruolo di prim’ordine queste figure femminili che
alimentano la loro fede aderendo con entusiasmo e determinazione al modello di
vita religiosa che Caterina da Siena aveva contribuito a modellare sulla scorta
della Regola di Fra Munio di Zamora, che prevedeva il vincolo dei voti di castità,
povertà, obbedienza, praticati però attivamente rimanendo all’interno della
comunità civile, attraverso l’attuazione di una quotidianità che restava
intermedia tra lo stato laicale e la condizione religiosa di vita comunitaria.
In alcuni casi, furono esse stesse promotrici dirette o indirette della
fondazione di comunità religiose cenobitiche, attribuendo alla vita comune un
particolare significato di appartenenza, nel pieno rispetto delle norme del
Terz’Ordine della Penitenza di san Domenico, impregnate di quello specifico
carisma che opera attraverso la vita comune e penitenziale, lo studio e la
preghiera.
L’esperienza delle Domenicane che, dal secolo XIII al finire del XV,
prefigurarono il modello cateriniano o in esso si riconobbero, contribuendo a
loro volta a rivitalizzarlo ed a diffonderlo, costituisce un generoso,
essenziale contribuito alla riforma della vita religiosa femminile nell’età
densa di fermenti che, nelle sue istanze, precede ed anticipa il Concilio di
Trento.
La loro presenza individuò uno specifico campo di attività
nell’impegno politico, inteso nel senso più degno dell’impegno nella
costruzione del bene comune.
Molte tra le donne di alta spiritualità che aderiscono al Terz’Ordine
attraversano la storia delle età che scandiscono i secoli del basso medioevo,
dalla crisi feudale all’organizzazione civile del libero comune, solo in
minima parte lasciandosi coinvolgere, all’avvento delle signorie,come “sante
di corte” in un progetto politico che non appartiene più unicamente a loro.
In particolare, le mulieres sanctae del
Terz’Ordine della Penitenza fanno proprio il carisma cateriniano intessendo
una fitta rete di relazioni con le autorità politiche e religiose del tempo in
cui vissero, impegnandosi con dedizione in un’opera pacificatrice affidata
esssenzialmente al valore della parola profetica.
Con stili diversi, ma con un’analoga finalità di concordia civile,
Vanna da Orvieto e Margherita da Città di Castello seppero aggregare intorno a
sè i popolani dei nuovi quartieri di espansione della città comunale,
integrando nel tessuto sociale urbano i campagnoli recentemente immigrati e gli
artigiani del “popolo minuto”, costituendo un esempio morale di alto valore
per i ceti emergenti della borghesia mercantile, offrendo sè stesse - in vita
ed in morte - come simbolo dell’identità cittadina.
Durante la loro esistenza terrena, sono prodighe di assistenza e di
conforto a chiunque si rivolga loro, agiscono e pregano per il bene comune; la
loro morte è segnata da eventi che fanno gridare al miracolo, che si ripetono
durevolmente nel tempo, tanto che la comunità cittadina - in questo,
frequentemente sostenuta dall’Ordine dei Predicatori - ne ottiene
l’elevazione agli onori degli altari, in primo luogo promuovendone il culto
locale.
Colomba da Rieti, Lucia da Narni, Osanna da Mantova si distinguono sul
finire del Quattrocento tra le protagoniste di una vicenda storica che le vede
come autorevoli interlocutrici degli esponenti dei più potenti casati
affermatisi nel processo di insignorimento che si attraversa l’Italia dalle
cento città.
La loro mitezza è pari alla loro determinazione nell’esortazione alla
pace ed al bene comune, prefigurando nell’ordinamento della città dell’uomo
l’infinita giustizia, manifesta nella città di Dio.
Il dono della precognizione, che si esprime attraverso la profezia, è
segno manifesto del loro carisma ma rappresenta del pari il solo mezzo
accessibile ad un’espressione verbale, ad una elaborazione e trasmissione di
pensiero altrimenti riservata ai confratelli, membri del I° Ordine: solo
mediante il ricorso all’espressione mistica, le mulieres sanctae riescono ad affidare alla comunità gli esiti della
loro riflessione, i frutti della loro autorità nei campi della morale, della
politica, della filosofia, della teologia.
Con felice intuito, dal XIII al XVI secolo, ripercorrono le tappe
teorizzate nel 1324 da Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis: il legislator
deve essere composto dall’universitas
dei cittadini o da una loro qualificata rappresentanza, costituito da un corpo
unico ed indiviso, a cui resta sottoposto il principans.
Se, dunque, Vanna da Orvieto e Margherita da Città di Castello assumono
consapevolmente su di sè il compito di coagulare il corpo sociale dell’universitas
civica, le loro consorelle del XV secolo agiscono come autorevoli rappresentanti
di tale comunità affiancandosi al principans
al fine di esercitare nei suoi confronti una influenza benefica, moderandone
l’orgoglio, moralizzandone i comportamenti privati e pubblici, facendo sì che
i fini della sua attività politica coincidessero dunque con gli interessi della
collettività.
Va notato che le monache del Terz’Ordine della Penitenza di San Domenico
più attive e consapevoli in questo delicato compito di guida spirituale e
politica non si qualificano mai come rappresentanti di una pars valentior definita su una base eminentemente censitaria, come
è invece esplicitamente dichiarato da Marsilio, per cui la parte più
importante del corpo cittadino va intesa secondo la quantità e la qualità
delle persone nella comunità, per le quali è fatta la legge.
La loro presenza si qualifica essenzialmente come rappresentanza etica e
spirituale, che travalica i limiti del secolare dibattito riguardo ai rapporti
tra la chiesa ed il potere temporale.
Le terziarie Domenicane, infatti, mediante il ricorso alla parola
profetica, rendono attivo il loro carisma intrattenendo relazioni dirette con la
gerarchia ecclesiastica così come con gli esponenti del potere economico e
politico, siano essi magistrati o signori, pontefici o sovrani.
La linea di demarcazione fra la fede, campo comune di appartenenza per
l’intera Europa cattolica - come dimostrano i rapporti di natura diplomatica
stabiliti da alcune carismatiche come Colomba da Rieti o Lucia da Narni con le
corti di Francia e di Spagna - e la pratica politica che regola la vita pubblica
nel trapasso dalle forme civiche dell’età comunale agli organismi del potere
signorile si fa nel corso dei secoli XIII-XVI sempre più frammentaria: ne
costituiscono i segmenti più significativi elementi storicamente studiati ed
approfonditi singolarmente, quali la rinascita commerciale, lo sviluppo della
vita civile, l’attività intellettuale ed artistica.
Una lettura complessiva dei fatti e dei fenomeni caratterizzanti il basso
medioevo, fino alle soglie dell’età moderna, consente di correlare in un
sistema organico cause ed effetti manifesti soprattutto in una periodizzazione
di ampio respiro.
Sta di fatto che proprio all’interno di questa frammentazione si
collocano le figure storiche di queste donne dall’intensa spiritualità,
fortemente impegnate nel conseguimento del bene comune attraverso la presenza
attiva nella città, la rappresentanza di una comunità che si riconosce nella
condivisione di una sola fede, il ricorso alla profezia come mezzo alternativo
rispetto alla predicazione altrimenti interdetta.
Il Domenicano Sebastiano Angeli de’ Bontempi, che fu confessore e
biografo di Colomba da Rieti, testimonia al riguardo che “molti agravavano che parlasse in chiesa in qualunche modo; in però che
secondo la sententia publica de Sancto Crisostomo: la donna parlò la prima
volta e tucto el mondo reverticò. Etiandio perché quillo suo parlare è
occasione de tumulto et de scandalo per la confusione de lo intromecterse gli
homini cum le donne senza ordine”(1), ma oppone a queste critiche delle
serrate argomentazioni a favore dell’attività omiletica e profetica svolta da
suor Colomba, sostenendo “che a le donne
non se permecte ma lo’ è interdicto el parlare è vero per publica
assuntiatione de doctrina. In però che lo amaestrare dice prelatione e
presidentia de la autorità ecclesiastica. Onde pertanto dice l’apostolo
signatamente nella chiesa. Ma privatamente l’è permesso così dicono li santi
Conciessecosa che le donne non sonno excluse da le revelatione. A le quale sonno
revelate molte cose como a li huomini Perché la gratia del spirito sancto non
fa differentia da masculo o femena. E noi legemo de molte che per instinto del
spirito sancto davano consegli e erudiano e amaestravano el populo per spirito
de profetia. A le quale etiamdio è congruamente concesso de le oratione e
lectione le quale le donne proferiscono ne li collegij loro”(2).
A questo particolare ambito, intersezione fra l’ispirazione profetica e
l’originale elaborazione del proprio pensiero, appartiene il ricorrente uso
della parola operato da Colomba da Rieti, nella generosa aspirazione ad una
riforma complessiva della vita civile e religiosa, nei cui contesti promuove una
specifica riforma della pratica monastica del Terz’Ordine, dalla condizione
laicale alla comunità collegiata, fino ad arrivare alla forma claustrale vera e
propria.
La Terziaria Domenicana, nata a Rieti nel 1467 ed attiva a Perugia tra il 1488
ed il 1501, anno della sua morte, s’impegna con dedizione nel suo ruolo di
consigliera spirituale presso il potente casato dei Baglioni, all’epoca da
poco insignoritisi della città umbra.
Così la ricordano le cronache del tempo, che ne consegnano la memoria
alla storiografia locale: “per le sue
orazioni intercessorie che lei faceva a le orecchie di Cristo, e per li scandoli
che quella riparava con suoi preci: e per questo il popolo la chiamava santa. E
anco il signor Guido e Ridolfo spesso con questa parlavano, e lei gli esortava
al ben vivere de la città; altramente gran ruina a quelli minacciava”(3).
La figura di Colomba da Rieti resta ad ogni modo fortemente legata alla
tradizionale identità stabilita nel corso dell’età comunale tra l’ambito
del santo e lo spazio civico: il corpo santo custodito e venerato nelle varie
modalità del culto viene onorato mediante la pratica dell’elevazione da parte
della comunità, in cui si assommano e coincidono i ruoli di fedeli e cittadini;
d’altro canto, lo stesso corpo santo garantisce ed opera nei confronti della
città intercessione e tutela.
Alcune figure carismatiche, tra le quali si segnala appunto Colomba da
Rieti, vengono riconosciute ed onorate come “sante vive”, secondo la felice
definizione coniata dallo stesso padre Sebastiano Angeli de’ Bontempi.
La duplice funzione, protettrice e moralizzatrice, assolta dalla Terziaria
Domenicana a Perugia è rivolta alla città, finalizzata ad ottenerne la
concordia ed il bene comune: Colomba da Rieti agisce dunque nei confronti dei
Baglioni, e non al loro fianco.
Ciò la differenzia radicalmente dalle “Sante di corte” legate alle
sorti di un casato destinato ad assolvere ed assimilare entrambe le funzioni del
legislator e del principans, ma è la medesima caratteristica di spiccata autonomia
morale e spirituale, sensibile ed aperta ad ogni istanza e ad ogni soluzione che
rende Colomba da Rieti una figura del limite, tanto dal punto di vista
cronologico quanto dal punto di vista etico.
Anche per questo la fama profetica della
parola di Colomba, sempre schietta e vigorosa, supera ben presto le mura della
città.
Lo stesso pontefice Alessandro VI la interroga: pur mantenendo un
atteggiamento rispettoso ed aperto nei confronti della Terziaria, benvoluta e
stimata da Cesare Borgia, che l’ha conosciuta ed apprezzata quando era giovane
discepolo della Facoltà di Diritto presso lo Studium perugino, il Papa
sottopone suor Colomba ad un serrato interrogatorio, o meglio un’ “
investigazione publica”, equivalente al primo grado dell’Inquisizione.
La Domenicana, che consapevolmente ha assunto il modello di Santa Caterina
come riferimento spirituale e paradigma comportamentale, è lucidamente in grado
di discernere nel suo interlocutore i tratti dell’autorità, distinguendo a
ragione le umane mende di Rodrigo Borgia dall’autorevolezza del Pontefice,
vicario di Cristo nella Chiesa di Roma.
Così, “genuflexa devotamente se prostrava supra li gradi a li beati
piede de esso maximo antiste: et expansi li braccia e mano occupò le extremità
de li suoi vestimente e rapta in spiritu se fé immobile como una pietra (...)
De po longa mora excitata asurrexe e facta da presso e recta: dimandata dal
summo pontefice prudentemente respondea a tucte le cose: cum quilla sua consueta
simplicità e modestia. Ma quando el papa la dimandò de certe cose più ardue:
un’altra volta andò in extasi e remase recta como de pietra”(4).
Il pontefice sospetta una simulazione da parte di Colomba, e la sollecita
con fermezza affinché risponda.
Si rivolge così all’intermediazione del confessore, che sette anni più
tardi così ricorda l’episodio nel testo della Legenda volgare: “comminatoriamente a me indixi Habbie guardia
patre che io so el papa: e riferisceme de quista ciò che ne sai e la pura
veritade”.
Una richiesata analoga fu rivolta a suor Vanna, la madre di Colomba che,
rimasta da poco tempo vedova, aveva preso i voti lasciando anch’essa la città
di Rieti per ricongiungersi alla figlia: pure vAnna, in quanto “genitrice de
essa vergine”, fu “seriosamente examinata”.
Solamente più tardi Colomba supera lo stato estatico e, recuperando la
sua piena lucidità, risponde esaurientemente alle domande che le vengono
rivolte: “Finalmente expergefacta essa vergine de Cristo Respuse a ogni cosa
sapientemente e autenticamente Intanto che el beatissimo antiste molto la laudò
e offerisse a li suoi beneplaciti”.
Così lo stesso confessore dichiara di essersi espresso come garante
dell’ortodossia di suor Colomba: “Beatissimo Patre Io so certamente che tu
sei Cristo: e io dico la veritate. Quista serva de Cristo Suora Colomba: venne
qua advena e peregrina una cum lo patre e honesta comitiva: e da la devotione de
quisto popolo constrecta remase. E persevera perfino a quisto tempo in ogni
santimonia”.
Inoltre, il predicatore conferma ed attesta che le profezie di suor
Colomba si realizzano infallibilmente, “ciò che da essa essenzialmente de
costumi e de facti ogni cosa se verifica totalmente”(5).
Colomba stessa quindi ricorre alla parola con la consapevolezza drammatica
dell’ineluttabilità delle sue affermazioni, benché molti detrattori mettando
in dubbio la veridicità dei suoi doni profetici.
Ciò viene rimarcato dalla Cronaca Perugina del Maturanzio:” Non già
per questo ogni homo ce aveva fede vedendola transire pubblicamente, e parlare e
dire e revelare le cose molto coperte come lei faceva”.
Lo stesso autore individua l’ambiente francescano come fautore dei più
vivaci oppositori e denigratori dello spirito profetico della Terziaria
Domenicana.
Ma quest’ultima non si lascia scoraggiare dalle critiche, dichiarando al
confessore: “Io non desidero piacere a li homini: e quisti doni non sonno de
vertù nostra ma idio ce le dona. E imperò non bisogna de se gloriare ma se
recerca de le guardare con ogni humiltà”.
Così dunque, nota il biografo, “è cosa mirabele e de dio certamente o
che lei respondesse o vero che lei parlasse a qualunche se fosse senza artifizio
de parole: senza audacia: senza tedio de fatiga. E quilla medesima simplicità e
mansuetudine servava cum li supremi e infimi qualuncha se fosse. Niuno se
partiva da quilla scandalizato: etiamdio se fosse venuto per tentarla o havesse
hauto de essa mala opinione. più presto ogniuno se miravegliava de la dolcezza
del suo parlare e de la humiltà e del devoto dire e lenitivo”.
Nel linguaggio di Colomba da Rieti, i riferimenti alla condizione politica
ricorrono su due distinti livelli di comunicazione, il piano del linguaggio
profetico e quello del linguaggio mistico.
Operando profeticamente, Colomba intende agire a vantaggio del popolo, che
subisce le deleterie conseguenze delle ostilità fra fazioni intrigate dalle
loro contese di potere.
I fuorusciti perugini, sostenitori del casato degli Oddi, tramano insidie
per riconquistare un ruolo di comando ormai perduto; all’interno della stessa
famiglia dei Baglioni, che detiene il potere in città, risentimenti ed invidie
provocheranno presto il bagno di sangue che le cronache cittadine registrano
sotto il tragico nome delle “nozze rosse”.
La Domenicana s’impegna, come autorevole esponente della Chiesa
militante, ad esortare e consigliare, a minacciare e scongiurare nel nome di Dio
ed in vista del bene comune, senza mai essere animata da spirito di parte.
Il suo sostegno alla fazione egemone, determinato essenzialmente
dall’aspirazione alla pace per il popolo perugino, non risparmia ai Baglioni
ne’ critiche severe, ne’ aspri moniti.
L’intero capitolo quarantacinquesimo della Legenda volgare è dedicato dall’Angeli a trattare “del
patrocinio e revelatione de beata Colomba; per la città de Perusia e del populo
perusino”(6).
Gli interlocutori di Colomba sono i nobili, i maggiorenti cittadini che
essa richiama ad aderire ai più alti valori dell’etica politica ed
all’adempimento dei loro compiti, antivedendo e minacciando lutti e
distruzioni se non avessero dato ascolto ai suoi ammonimenti.
La pars valentior è dunque, per
Colomba da Rieti, la classe dominante, responsabile del buon vivere civile, a
cui fa appello con tutte le sue forze affinché assicuri pace e benessere
all’intera comunità.
Dunque, se la Terziaria compie una scelta di campo, questa non si
determina certo nell’ottica della lotta tra le fazioni: la Domenicana si
schiera a fianco degli umili, dei diseredati, della gente comune che è vittima
dell’instabilità politica, esposta ad arbitri e violenze, di cui assurge al
ruolo di protettrice ed impetra la particolare intercessione di Santa Caterina e
San Domenico.
Colomba sceglie di sostenere e confortare le donne, le madri e le spose,
che si rivolgono a lei affinché preghi e scongiuri la guerra, che minaccia le
loro case ed i loro affetti.
Lo spirito profetico di Colomba si manifesta in tutto il suo vigore in
occasione della festività dell’Assunzione di Maria Vergine.
Siamo negli ultimi anni del secolo XV.
La Madre di Misericordia ispira la piccola madre spirituale affinché
porti il suo contributo di pace alla comunità che tanto le sta a cuore.
La predilezione di Colomba verso “el populo de Dio” si manifesta con
palmare evidenza nelle drammatiche circostanze dell’epidemia di peste che si
abbatte su Perugia nel 1494: il morbo, secondo la concezione profondamente
radicata nella mentalità del tempo, viene percepito come una tremenda,
inevitabile punizione collettiva, correlata e conseguente rispetto alle colpe di
cui si sono macchiati i singioli, cittadini e governanti,aristocratici e plebei.
Colomba, richiesta dai magistrati cittadini, interviene mediante la
preghiera ed il soccorso attivo ai malati, indice un triduo solenne, ordina che
sia dipinto un gonfalone con le insegne del “sanctissimo patre sancto Domenico
e sancta Caterina da Siena che per spetiali patrocinio pigliano la causa del
populo”.
Ma soprattutto è lei stessa a votarsi come vittima sacrificale,
accogliendo la sofferenza del corpo come mezzo di espiazione degli altrui
peccati e come strumento di affrancamento del popolo umbro dal contagio mortale.
Secondo la Legenda volgare, da
cui trasse ispirazione l’iconografia, Colomba soffrì a lungo per la peste,
“como che essa propria se havea preelecto e arempisse per tucto de aposteme e
vessiche gonfiate de morbo pestifero: e de certe crepaccie che menavano acqua
sania che cocea Per tal modo che cun le ardentissime febre e importuni dolori:anchora
era da le assidue e cocente puncture pizicata e afflicta (...) Havea la sposa de
Cristo tollerati quisti cruciati già septe dì: quando li aparuiro el patre
sancto domenico e sancta Caterina che la consolavano: e de puoi cum le loro mano
le cavavano via le vessiche e aposteme e le crepaccie ungevano. E alora sanata a
la pristina valitudine reducta: escì fuora lieta e alegra dicendo: El santo
patre san domenico cum sancta Caterina me ànno curata apieno da ogni peste”.
La guerra che durante la pestilenza del 1494 Colomba conduce è quella
dello spirito che si oppone al corpo, della carità che combatte l’egoismo.
Nonostante il timore del contagio, Colomba impone ai magistrati cittadini
la propria volontà: “E voi tre dì visitate le chiese de li santi cum le
letanie (prudentemente però) E deputate al prezo de publico erario per aiuto e
subsidio de li povari infirmi”.
Inoltre, si prodiga essa stessa a curare ed assistere moralmente gli
ammalati: si alcuni se infirmavano da essa: li quali uncti cum lo olio de la
lampada del suo altare se curavano”.
Sopporta infine con autentico spirito di sacrificio le sofferenze del
corpo, attraverso cui purifica l’anima ed ascende ancora ai gradi più alti
della scala di perezione.
Su di un diverso piano di comunicazione si colloca il linguaggio mistico
della beata, che ricorre alla suggestione simbolica delle immagini per evocare
ed esplicitare un pensiero altrimenti inesprimibile concettualmente.
Di tale linguaggio, non rimane che l’eco riverberantesi nelle
testimonianze biografiche ed agiografiche, oltre che nella trasposizione
iconografica.
La fama di santità che fiorì intorno alla Terziaria Domenicana che a
Perugia costituiva intorno all’ultimo decennio del Quattrocento un autorevole
punto di riferimento tanto per la vita civile che per la vita spirituale, si
diffuse rapidamente nelle città dell’Italia centrale che vivevano con pari
travaglio il trapasso dall’organizzazione comunale all’avvento delle
Signorie.
Così da Viterbo la correligionaria Lucia da Narni si rivolse a suor
Colomba riconoscendo in lei un esempio ed un modello di vita a cui decise di
ispirarsi, nella condivisione dello spirito cateriniano di azione e di impegno
nel rinnovamento etico e politico della società civile.
Di dieci anni più giovane, Lucia da Narni era stata forgiata da
esperienze di vita radicalmente diverse, dalle origini aristocratiche fino al
casto ed infelice matrimonio con il conte Pietro di Alessio.
Da Narni a Viterbo, il noviziato rappresentò per Lucia l’occasione per
mettere alla prova le virtù della costanza e dell’obbedienza, nella piena e
perfetta adesione alla Regola.
Il suo periodo di formazione spirituale coincide proprio con gli anni
viterbesi, attraversati da molteplici richieste: Alessandro VI la vuole a Roma,
Ercole d’Este a Ferrara.
La fama di santità, enfatizzata dal miracolo delle stimmate manifestatesi
durante la Quaresima del 1496, genera intorno a lei uno splendente alone, che
accentua ed esalta i carismi della Terziaria.
Il prestigio di suor Lucia crebbe dunque nella stima e
nell’apprezzamento condivisi da popolani ed aristocratici, da laici ed
ecclesiastici, tanto da sollecitare la richiesta del duca estense che la volle
presso la sua corte, affidandole l’opera di fondazione di un suo monastero,
nell’intento comune di moralizzazione dei costumi e di pacificazione del
Ducato.
Le trattative intercorse fra Ercole I d’Este ed il pontefica Alessandro
VI sono documentate da un interessante carteggio (1496/1499) che rivela i tratti
di un’attività diplomatica intensa tra i due poli dell’amministrazione
civile e dell’autorità religiosa.
Entrambi gli interlocutori riconoscono ed ammirano le virtù di suor
Lucia, le attribuiscono un ruolo centrale in un processo di consolidamento del
potere politico che richiede stabilità e sicurezza, consenso e concordia
civile.
L’accordo a cui addivennero il pontefice ed il duca, che peraltro
preluse a più stretti legami tra i due potentati, fu fortemente osteggiato dai
Viterbesi, che non intendevano privarsi della venerata presenza della monaca
alla cui presenza affidavano tanto il mantenimento e l’incremento del
monastero domenicano di Santa Caterina, quanto il benessere dell’intera città.
In data 17 aprile 1498, i priori del popolo di Viterbo inviano infatti al
papa una supplica a cui affidano le loro rimostranze, adducendo le ragioni
dell’opposizione popolare alla partenza di suor Lucia: l’intera città “nisi
essent operae et praesentia dicte sororis Luciae (...)
funditus rueret”.
Suor Lucia era intanto disposta all’obbedienza, pronta ad eseguire la
volontà del papa che l’aveva convocata a Roma, del pari a rispondere alle
richieste del duca, che mobilitava la diplomazia e gli armigeri per averla con
se’ a Ferrara.
In questa mite acquiescenza riconosciamo i tratti di una consapevolezza
che accomuna Lucia da Narni e Colomba da Rieti: entrambe infatti non avversano -
come fa, nel contempo, fra Girolamo Savonarola - un pontefice pur tanto
discutibile e discusso, riuscendo sempre a praticare il dettato tomista che le
sostiene nel discernere e collocare su piani diversi e distinti l’uomo Rodrigo
Borgia, con le sue dissolutezze ed i suoi falli, ed il papa Alessandro VI,
attraverso il quale parla lo Spirito Santo e si manifesta la volontà di Dio.
L’arrivo di suor Lucia a Ferrara fu preceduto da una fuga avventurosa e
da un faticoso viaggio: il duca coinvolse alti prelati ed uomini d’armi
nell’impresa che, secondo le cronache del tempo, venne a costargli non meno di
3.000 ducati.
La monaca stigmatizzata, accompagnata da numerosi suoi familiari, fu
accolta con ogni onore presso la corte ferrarese, che provvide a dotarla dei
fondi necessari per l’istituzione del suo monastero, che avrebbe ospitato fino
a cento monache.
Ma il progetto di riforma della vita religiosa femminile promosso da
Ercole I d’Este ed attuato da Lucia da Narni non conseguì i risultati
auspicati, dal momento che forse troppo affrettatamente, sull’onda di un pur
legittimo entusiasmo, vennero accolte nel monastero di Santa Caterina monache
appartenenti sia al Secondo, sia al Terz’Ordine, senza prevedere ne’
predisporre norme che favorissero l’adeguamento a prospettive originali di
vita comune e garantissero la coesione interna dell’istituzione, al di là
dell’indubbio carisma posseduto dalla fondatrice.
I privilegi di cui Lucia da Narni godeva, estesi peraltro ai suoi
familiari tanto laici che religiosi, contribuirono ad esasperare la situazione,
destinata a precipitare alla morte del duca (1505).
Fu allora reso noto che da due anni le stimmate erano scomparse,
richiudendosi miracolosamente sulle mani e sui piedi della mistica: pur avendo
ancora una volta nel modello cateriniano un inconfutabile precedente storico, la
sparizione del fenomeno e soprattutto la mancata divulgazione della notizia
generarono un alone di dubbio intorno alla santità di vita di Lucia da Narni,
che il Capitolo del Monastero destinò ad una umiliante condizione di
segregazione, pazientemente sopportata per poco meno di quaranta anni, fino alla
morte avvenuta nel 1444.
Il silenzio e la meditazione, la pratica estrema dell’ascesi mistica
sublimarono in Lucia da Narni ogni scoria della sua esperienza mondana, legata
ad interessi politici che la storiografia non semre riesce a leggere ed
interpretare, se non in rapporto ad eventuali strumentalizzazioni di parte.
In verità, Lucia da Narni limitò i suoi interventi alla corte di Ercole
I d’Este a generiche esortazioni alla pace ed alla concordia civile,
rigorosamente coerenti ed osservanti della dottrina della Chiesa nella fase
storica della preriforma.
Gli stessi rapporti intrattenuti con alcune delle corti italiane ed
europee del tempo furono improntati a tale rispetto, motivati essenzialmente
dalla fama di santità di cui Lucia da Narni era circonfusa: i re di Francia
sollecitarono più volte l’invio da Ferrara di pezzuole intrise degli umori
delle stimmate, conservate come reliquie e comunemente riconosciute come mezzo
di intermediazione ed intercessione per l’ottenimento di grazie e miracoli.
Analogamente, sia pur con prudente umiltà, Colomba da Rieti aveva
intrattenuto rapporti con i cattolicissimi sovrani di Spagna.
Ciò conferma ad ogni modo che si tratta di contatti diplomatici che le
Domenicane del Terz’Ordine intessono con i potenti dell’epoca, forti del
loro prestigio spirituale e della loro autorevolezza morale, al fine di
sostenere il popolo di Dio mediante le loro opere, le loro preghiere e le grazie
che ne derivano, al di là dagli schieramenti di parte e dei confini dei regni e
degli stati, dei comuni e delle signorie: in ciò la loro opera si caratterizza
e si distingue nei modi e nei mezzi dal veemente impeto savonaroliano, pur ad
essa intimamente legato nel perseguimento dei comuni obiettivi della
pacificazione e della moralizzazione della società.
Lucia da Narni paga con la forzosa clausura durata per la seconda metà
della sua vita terrena il prezzo della sua obbedienza, che diventa fedeltà al
duca di Ferrara, Ercole d’Este. accogliendone la richiesta, accettandone i
benefici la Terziaria si fa “santa di corte”, non meno della correligionaria
Osanna Andreasi, che riveste un ruolo di prim’ordine presso i signori di
Mantova.
Osanna nacque nell’inverno del 1449 a Mantova da Niccolò Andreasi e da
Agnese Gonzaga, forse appartenente ad un ramo cadetto della casata allora
dominante in città.
A quindici anni indossò l’abito del Terz’Ordine della Penitenza di
SAn Domenico, dopo aver superato l’ostilità paterna al suo progetto di vita
religiosa, impegnandosi in una intensa attività caritativa e spirituale.
Nel 1478 Federico I Gonzaga, in guerra contro gli Svizzeri, affidò
proprio ad Osanna la custodia della moglie Margherita di Baviera e dei suoi
figli, nei confronti dei quali la Domenicana assunse di fatto la reggenza alla
morte della loro madre, esercitando il suo compito arduo e delicato con sincero
affetto e lucido equilibrio.
I rapporti con il casato signorile s’intensificarono al tempo di
Francesco ed Isabella d’Este, che la stimarono e l’apprezzarono come guida
spirituale e consigliera politica, fino ad attribuire alla sua intercessione la
nascita tardiva dell’erede Federico II (1500), detto per questo il “figlio
dell’orazione”.
Ancora trovò conforto e consolazione nella confidenza con Osanna la
duchessa Elisabetta, moglie di Guidubaldo d’Urbino, il cui dominio sulla città
marchigiana era insidiato dall’esercito di Cesare Borgia.
Osanna da Mantova morì nel 1505, tra il compianto dei suoi concittadini.
Francesco Gonzaga ed Isabella d’Este intervennero alle esequie,
convalidando con questo inconsueto atto di umile partecipazione la fama di
santità che già in vita aveva circondato la figura della carismatica.
Le esperienze di corte che connotano la vita di Osanna Andreasi non furono
ad ogni modo vincolate alla funzione di tutela esercitata nei confronti della
duchessa Margherita e degli eredi del duca di Mantova, verso i quali la monaca
assunse un assiduo e consapevole ruolo di maternage spirituale, ben più
complesso ed articolato del compito di un precettore o della vigile consulenza
di un cortigiano, esperto di diplomazia: Osanna da Mantova fu prescelta da
Federico per le sue virtù carismatiche ed assolse con dignità e prudenza ad un
obbligo morale, prima ancora che politico.
Allontanandosi da Mantova per un impegno che ne metteva a repentaglio
l’incolumità, il duca poneva simbolicamente la famiglia e la patria sotto la
protezione della Chiesa, autorevolmente rappresentata da una religiosa la cui
vita di virtù era incontaminata dai giochi di potere e dagli interessi mondani.
Nell’epoca della preriforma, densa di fermenti ed agitata da forti
tensioni sociali, una simile scelta interveniva a legare intimamente alla città
i religiosi e le religiose, in specie esponenti dell’ Ordine dei Predicatori,
così come il ruolo di tutela assunto dai santi nelle epoche precedenti si era
sedimentato nei culti e nelle devozioni locali, lasciando testimonianza
nell’iconografia sacra.
Nell’epistolario di Osanna da Mantova ricorrono frequenti delle
espressioni intense, che proiettano nuova luce su significati profondi,
consentendo di comprendere ed apprezzare i legami più intimi che intercorrono
fra la vita politica e la vita spirituale, rendendo l’esperienza del singolo
imprescindibile dalle sorti stesse della comunità di cui è parte integrante.
Così ad esempio la Terziaria Domenicana scrive nella quindicesima
Epistola al devoto Gerolamo Scolari, suo affezionato figlio spirituale: “ O
luce perpetua trascendente tutti li lumi creati, o siano fulgori o siano
coruscazioni del sublime loco. Penetrante purifica tutti li secreti del mio
cuore con le tue potenze, a ciò che si accosti a te con alegra perseveranzia. O
quando venerà questa beata e desiderabile ora che tu mi sazii della tua
presenzia, a ciò che in tutte le cose tu mi sia ogni cosa? Finché questo non
mi sia dato, non sarò piena di gaudio.
Ahimé, che ancora vive in me
l’omo vecchio, cioè la pravitade de la carne: non è tutto crucifisso, non è
tutto morto, ancora desidera fortemente contro il spirito, unisce le secrete
battaglie, e non lascia essere queto il regno de l’anima; ma tu che signoreggi
la possanza dil mare e mitighi il monte de le sue onde, levati, aiutame, dissipa
le gente che vogliono le guerre, deprimeli ne la tua virtute, mostra, ti priego,
le tue magne operazioni, e sia glorificata la destra tua, perché a me non è
altra speranza ne’ refugio se non tu signor mio Dio, che in questa vita non è
securitade de la tentazione, perché sempre Dio permette così a li suoi servi a
sua magiore corona”.
Dal breve stralcio dell’epistola risulta evidente lo stile evocativo,
denso di suggestioni profetiche consone allo spirito del tempo, appena molcite
dai modi assertivi che più si addicono alla singolare personalità di Osanna
Andreasi: elementi di tono mistico traspaiono dal testo e si coniugano dunque
con i più attuali riferimenti ad una quotidianità condivisa nell’esperienza
individuale della purificazione del cuore, che si riverbera e si rifonde nella
pacificazione e nella moralizzazione della società civile.
L’attesa, auspicata nascita dell’uomo nuovo implica il decantarsi
della “pravitate de la carne”, e dunque la liberazione dalle passioni
terrene, che lasciano il campo al tempo dello spirito.
Echi remoti richiamano ad una tradizione aulica mai dimenticata,
auspicando una palingenesi attesa e prefigurata da secoli, fin dal tramonto
dell’antichità pagana, evocata nella parusia dai Cristiani dei primi secoli,
percepita come esigenza e condivisa come prospettiva tanto dai poeti latini
quanto dai Padri della Chiesa.
La sorte individuale delle Terziarie Domenicane della cui biografia
abbiamo ripercorso le tappe salienti, scandite mediante la forza delle idee,
l’invocazione divina, l’esortazione alla concordia civile, la pacificazione
degli animi che dovrà riverberarsi sull’intera collettività di cui esse sono
parte integrante, presenta una vasta gamma di situazioni e di soluzioni ad una
comune chiamata: da Vanna da Orvieto, che anticipa non solo cronologicamente
l’esperienza di Caterina da Siena, a Margherita da Città di Castello,
attraversando le stagioni dell’età feudale e del libero comune, fino alle
“sante di corte” del primo Rinascimento, le vicende dvissute dalle Terziarie
della Penitenza di San Domenico recano sullo sfondo il segno della tragedia
savonaroliana, che concluderà una breve, intensa stagione nelle quali le
coscienze più limpide, i più fervidi intelletti dell’Ordine Domenicano
coltiveranno le istanze di una giustizia civile intesa come prefigurazione della
giustizia eterna.
NOTE
(1) Sebastiano Angeli de’ Bontempi,
Legenda volgare, Ms. D 62, f. 39 sgg., Biblioteca Augusta,
Perugia
(2) ivi
(3) Francesco Matarazzo o Maturanzio, Cronaca,
in Archivio Storico Italiano, prima serie, tomo
XVI
parte II, 1891
(4) Legenda volgare, cit.
(5) ivi
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Attraverso il profilo biografico di Vanna da Orvieto, Margherita da Città
di Castello, Lucia da Narni è dunque possibile rintracciare il filo rosso che
lega intimamente l’esperienza complessa delle “Penitenti nere”, che
seppero declinare in forme intense ed originali spiritualità ed impegno
sociale, esprimendo autorevolmente la loro volontà di contribuire al
rinnovamento morale fortemente auspicato nel tempo in cui vissero, in un anelito
di giustizia manifesta nella pratica civile, fra il XIII ed il XVI secolo.
Accanto ad esse, che rappresentano per le loro peculiarità spiccate delle
figure simboliche, epifenomeniche quasi per la società civile non meno che per
la storia dell’Ordine a cui appartennero, s’intravvedono le forme di altre
correligionarie che ne condivisero in tutto o in parte le scelte e l’impegno,
incarnando anch’esse il carisma domenicano e presentando significative
sfaccettature, utili ad illuminare meglio singoli tratti di uno sfondo
storicamente denso e corrusco, attraversato da tensioni e passioni che hanno
informato l’età moderna nel suo complesso.
Le norme stabilite nel 1285 dalla Regola di fra Munio di Zamora consentono
a successive generazioni di donne di praticare attivamente scelte di vita
radicali, seguendo ciascuna il proprio personale ingegno, che si manifesta
attraverso l’impegno sociale ed il generoso contributo alla pacificazione
nella lotta politica, coltivando ciascuna la propria spiccata religiosità
secondo un ampio ventaglio di opportunità, tanto nella vita del secolo quanto
presso le “case sante” ed i monasteri dell’Ordine.
Proprio tale varietà di prospettive garantisce a ciascuna di valorizzare
se’ stessa e mettere a frutto i propri talenti, non solo percorrendo la scala
di Giacobbe perseguendo un modello di perfezione, ma garantendo altresì la
comunicazione, lo scambio vitale e fruttifero di esperienze con gli ambienti
laici e religiosi del tempo, la trasmissione all’interno del Terz’Ordine
della Penitenza di San Domenico di valori alti, che si riverberano positivamente
sulla parte migliore della società civile.
Così come l’anonimo Maestro delle Effigi Domenicane (sec. XIV) seppe
rappresentare in sequenza le immagini di alcune delle protagoniste della
singolare esperienza spirituale maturata all’interno del Terz’Ordine della
Penitenza, da Santa Caterina da Siena a Margherita da Città di Castello, a
Daniela ed a Vanna da Orvieto, raffigurandole tutte uguali, incorniciate
all’interno delle delicate volute di una pala d’altare, eppure tutte diverse
nell’espressione dolce e determinata del volto, negli emblemi parlanti della
loro condizione di santità, nei fatti salienti narrati con freschezza
straordinaria nei riquadri della predella, anche la ricerca storiografica ha
inteso proporre alcune forme e figure della santità femminile, ricostruendo in
modo documentato i contesti in cui maturarono le loro personalità, delineando
per quanto è possibile i loro percorsi individuali, evidenziando le peculiarità
delle loro scelte di vita, confluite in un’unica, imponente visione di
solidarietà e di giustizia civile, che prefigura in terra la gloria eterna del
Regno dei Cieli.
Curriculum
e pubblicazioni
STUDI
1976 - Laurea in Lettere Classiche conseguita presso l’Università di
Perugia,con una tesi di Letteratura Cristiana Antica (“Sant’Agostino
e Varrone:il problema enciclopedico”).
1981 - Laurea in Filosofia conseguita presso l’Università di Perugia
con una tesi di Filosofia Medievale
(“Alcuino di York e la Schola
Palatina”).
1983
- Laurea in Pedagogia conseguita presso l’Università di Perugia con una tesi
di Storia della scuola e delle istituzioni educative (“Il Seminario Diocesano di Rieti dalla fondazione all’Unità d’Italia”).
1997 - Diploma di Perfezionamento in Metodologia della ricerca storica,
conseguito presso l’Università Statale di Firenze.
1997 – Specializzazione in Pittura di Paesaggio, conseguita presso
l’Istituto Universitario Suor
Orsola Benincasa di Napoli
ESPERIENZE
PROFESSIONALI, INTERESSI E ATTIVITÀ
E’ insegnante di scuola secondaria superiore di
II° grado.
Ha curato la gestione del Museo Civico di Rieti
fra il 1976 ed il 1977 per conto del Gruppo Archeologico Sabino
E’ socia fondatrice del Centro di Studi
Varroniani di Rieti.
E’ socia ordinaria della Deputazione di Storia
Patria per gli Abruzzi e della Società Italiana delle Storiche.
Fa parte della Commissione Diocesana per l’Arte
Sacra di Rieti.
Dal 1989, è responsabile del corso di Storia
Locale presso l’Università della Terza Età di Rieti.
PUBBLICAZIONI
Ha al suo attivo numerose pubblicazioni
scientifiche, tra cui si segnalano:
L’eredità varroniana in Sant’Agostino
in ordine alle «disciplinae liberales»,
Istituto Lombardo – Accademia di Scienze e Lettere, Rendiconti,
classe di Lettere vol. 110, pp. 281-291, Milano 1976
Una
santa per le donne: riti e canti nella tradizione popolare della Sabina, in Santa
Barbara nella letteratura e nel folklore, Atti della giornata di studio del
14 maggio 1988, Centro di Studi Varroniani, Rieti 1989
Nel
segno del Tau, Il carteggio Joergensen-Varano, Rieti 1990
Bellezza
Orsini, cronaca di un processo per stregoneria, Pescara 1990
Petronilla
Paolini Massimi, una donna in Arcadia, Pescara 1991
Foemina
in fabula. Gli stereotipi del femminile nella cultura popolare, Pescara 1991
Colomba
da Rieti, Sacro e parola di donna, Teramo 1993
La
via della transumanza, intersezione tra culture storiche diverse, in Identità
e civiltà dei Sabini, Atti del XVIII Convegno di Studi Etruschi ed Italici,
Rieti-Magliano Sabina 30 maggio-3 giugno 1993, Firenze 1996
Petronilla
Paolini Massimi. Una rilettura al femminile del Simposio platonico, in Filosofia,
Donne, Filosofie, Atti del Convegno Internazionale, Lecce 27-30 Aprile 1992,
Lecce 1994
Note
critiche sulle testimonianze storico-artistiche della diocesi di
Cittaducale, in Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria A.
LXXXV (1995), L’Aquila pp. 143-157
I
tempi della Chiesa e i tempi della vita, in Il Papa scrive. Le donne rispondono,
a cura di G.P. Di Nicola-A. Dainese, Bologna 1996
L’iconografia
della beata Colomba negli affreschi del chiostro dell’antico convento dei
domenicani a Rieti,
in «Arte Cristiana», anno LXXXIV n° 773 Marzo-Aprile 1996
Politica
e guerra in Colomba da Rieti,
in «Prospettiva Persona» Anno VI, Luglio 1997
L’Abbazia
Cistercense di San Pastore presso Rieti: le ragioni di un recupero, in Bullettino della Deputazione Abruzzese di
Storia Patria, a. LXXXVII (1997), L’Aquila, pp. 29-39
Un
contributo allo studio del territorio urbano tra passato e presente, attraverso
l’analisi delle fonti ed il recupero documentario, Atti del XXXIX Convegno Nazionale di Geografia e
Didattica, Quartu Sant’Elena
18-22 Ottobre 1996, Cagliari 1998
Figure
del Terz’Ordine Domenicano,
in «Prospettiva Persona» nn. 24-26,anno VII, giugno-dicembre 1998
Tempi
di vita, tempi di preghiera nell’esperienza mistica della prima età moderna, Atti del Convegno «Il Tempo. Scienza Cultura
Educazione», Perugia 30 marzo-1 aprile 1995, IRRSAE Umbria 1999
Colomba
da Rieti. Una scelta di vita religiosa nella prima età moderna Bologna
1996
Fare
Storia Locale, 60 schede per la scuola di base Rieti,
1997
Venanzio
Varano della Vergiliana, Stadi nel cammino della sua vita Rieti, 1998
Colomba
da Rieti - Itinerari di religiosità femminile in Umbria (in collaborazione con S. Morelli), Città di
Castello 1998
Patronato
e tutela dello spazio urbano: Colomba da Rieti e le sue città, in «Arte Cristiana», Anno LXXXVI fasc. 784
Gennaio-Febbraio 1998
Il
secolo delle donne,
in Donna è bello, Il femminismo alle
soglie del terzo millennio, “Famiglia Oggi”, Milano Anno XXI n.
6/7, giugno/luglio 1998
Tre
chiese, una parrocchia - Luoghi di culto e di aggregazione civile dal Sestiere
delle Valli alla moderna Città Giardino Rieti, 1998
Esperienza
mistica e simbologia dell’amore coniugale nell’età della preriforma in
Italia, “INTAMS Review”, Sint-Genesius-Rode, Belgium,
vol. 4 N° 2 1998
Eros
e pubblicità, in Frammenti
di mondo. trenta sguardi sulla pubblicità,
a cura di C. Gily Reda, Atti delle tre giornate di studio sulla pubblicità,
Napoli 1994-1997, Napoli 1999
Taccuino
d’arte sacra
- I - La città, Rieti 1999
Rieti
- Rione San Nicola,
Roma 1999
Rieti
- Rione Porta Cintia,
Roma 1999
Le
Marche dei Varano. Storia di una dinastia dell’Italia mediana, Macerata 1999
Le
Tavolette votive del Monastero Perugino delle Colombe. Arti minori nei secc. XVI
e XVII,
in «Arte Cristiana» Anno LXXXVII, fasc. 795 Novembre-Dicembre 1999
La
scelta dello IACP di Rieti per la politica della casa. Recupero della città e
rivitalizzazione del centro storico (in collaborazione con Manuela Marinelli) Rieti, 2000
Vincenzo
Manenti, sabinus pictor,
Roma 2000
Devozione
Mariana – Il Monte Calvario nella cella della beata Colomba, in «Arte Cristiana», anno LXXXVIII n°798,
Maggio-Giugno 2000 pp. 231-232
San
Francesco a Rieti – Note per l’iconografia, in «Arte Cristiana», anno LXXXVIII n° 801 Novembre-Dicembre 2000,
pp.459-464
1600:
Confraternite in pellegrinaggio, uno spettacolo giubilare, in AA.VV., Roma
dei Giubilei Storie e curiosità tra sacro e profano Roma 2000,
pp. 141-149
Il
chiostro della beata Colomba a Rieti, Roma 2001
Il
monastero di Sant’Agnese, casa natale di Colomba da Rieti, Rieti, 2001
Ridistribuire
le responsabilità,
in Dalle passioni alle emozioni. Forze
vitali o tormenti dell’anima?, “Famiglia oggi”, Milano anno
XXIV, n°4 aprile 2001
Un
capolavoro restituito a Vincenzo Manenti: la Pietà Leoni di Rivodutri , (in collaborazione con Valerio Leoni), in «Arte
Cristiana», anno LXXXIX n° 805 Luglio-Agosto 2001, pp. 271-276
Saverio
Marini, vescovo della diocesi di Rieti, nella temperie rivoluzionaria del 1799, in Il 1799 in Abruzzo, Atti del Convegno
Pescara-Chieti, 21-22 maggio 1999, Deputazione di Storia Patria negli Abruzzi,
L’Aquila 2001, vol. II, pp. 1293-1308
Antonio
Gherardi (1638-1702). Le opere reatine, in «Arte Cristiana», anno LXXXIX n° 807 Novembre-Dicembre 2001, pp.
445-450
Donne
al crepuscolo di una dinastia, in «Prospettiva persona», Anno X Dicembre 2001, n° 37-38, pp. 63-65
I
gonfaloni perugini, testimonianza d’arte sacra e di devozione popolare, in «Arte Cristiana», anno XC n° 808,
Gennaio-Febbraio 2002, pp. 30-34
VOCI: Bellezza
Orsini, Colomba da Rieti, Petronilla Paolini Massimi in AA.VV., Women
in World History (1999-2001)
Collabora alle riviste «Arte
Cristiana», «Lazio Ieri e Oggi»,
«Prospettiva
Persona», «Famiglia
Oggi»; è membro del comitato di redazione del
quindicinale «Frontiera» di
cui cura la rubrica «Accadde
ieri»; per la
rivista specialistica «Scuola e
didattica» negli anni 1985-1991 ha realizzato
i
programmi di educazione civica per la scuola media
Per saperne di
più
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