Il
beato Giovanni Duns Scoto
e
Guglielmo di Ockham
di
Claudio Attardi
Dobbiamo subito dire che l’ultimo periodo
del Medio evo è ricco di cambiamenti e di rivolgimenti politici, religiosi e
culturali. Cominciano a formarsi e stabilizzarsi gli stati nazionali,
specialmente Inghilterra e Francia. La Francia, con Filippo il Bello e
l’Impero di Ludovico il Bavaro si oppongono sempre più alle teorie politiche
teocratiche del papato. Questo attraversa una profonda crisi spirituale; da una
parte si tenta di riaffermare la supremazia del papa sul potere politico,
dall’altra forti spinte interne alla Chiesa e la sfida religiosa con l’Islam
richiedono un ritorno all’antica purezza della povertà evangelica, e
l’abbandono del potere temporale. Il messaggio di San Francesco ha
profondamente cambiato la spiritualità in Europa occidentale, e non a caso i più
famosi intellettuali di questo ultimo scorcio del Medio evo provengono
dall’ordine dei Frati Minori.
L’eccessiva concettualizzazione della fede, la troppa fiducia nella ragione, ed il progressivo distacco della teologia dal vissuto quotidiano spingono
per reazione questi intellettuali a vedere il rapporto con la fede come dominio del cuore, dell’affettività, più che della ragione. In questo i teologi della
scuola francescana riprendono il pensiero di San Bonaventura e tendono a distaccarsi dal domenicano San Tommaso d’Aquino e da Aristotele, il
filosofo più seguito dall’Aquinate. Due sono gli eredi di San Bonaventura che si distinguono in questo periodo: il beato Giovanni Duns Scoto e
Guglielmo di Ockham, ambedue provenienti dall’Inghilterra.
Giovanni Duns,
detto Scoto perchè nato in Scozia, nacque probabilmente verso il 1265 o il 1266
e fu saprannominato dai suoi contemporanei doctor subtilis, per la sua abilità nel formulare tutte le
distinzioni e alternative possibili. Entrato giovane nell'ordine francescano,
studiò a Oxford e poi a Parigi, dove, secondo la consuetudine, commentò le Sentenze
di Pietro Lombardo. Nel 1303 fu costretto a lasciare Parigi, essendosi schierato
tra i sostenitori del papa Bonifacio VIII nel conflitto contro il re di Francia
Filippo il Bello, ma già nel 1304 poté rientrare a Parigi ed essere nominato maestro. Nel 1305 tornò
ad insegnare a Oxford , dove compose la sua opera più nota , intitolata Opus
oxoniense, dedicata al commento alle Sentenze di Pietro Lombardo. Nel
1307 fu chiamato a insegnare teologia nello studio francescano di Colonia, da
poco istituito, ma l'anno successivo perì. Altri scritti di Duns Scoto sono il Tractatus
de primo principio, le Quaestiones super libros Aristotelis de anima,
e i Reportata parisiensia, conservati in due redazioni, anch'essi
dedicati al commento delle Sentenze. La brevità della sua esistenza ed i
suoi continui spostamenti non gli consentì di sviluppare un pensiero
sistematico, ma ci sono alcuni punti in cui egli sembra così moderno da
precorrere le scuole contemporanee di teologia e filosofia, che hanno ripreso
abbondantemente il suo pensiero, assieme a quello di Ockham.
Duns
Scoto non respinge in maniera
drastica l'aristotelismo, ritenendo che sia possibile una conciliazione tra la
filosofia di Aristotele ben intesa e quella di Agostino: il vero avversario da
combattere è l'averroismo, una dottrina in voga nella Facoltà delle Arti a
Parigi, che rappresenta la degenerazione della ragione, e non lo spirito della
dottrina aristotelica, che consiste in una fiducia nelle forze razionali
dell'uomo. I seguaci di Averroè (vero nome Ibn Rushd, filosofo arabo –
ispanico), proclamando l'uso
autonomo della ragione, avevano contrapposto filosofia a teologia e creato
l'assurda teoria della doppia verità, dannosa sia per l'una che per l'altra; i
tomisti, distinguendo filosofia da teologia ma proclamando poi la loro
complementarità, avevano indotto soltanto a confusione. La conclusione di Duns
Scoto è che bisogna mantenere sì la
distinzione tra filosofia e teologia, ma nel senso di una distinzione di piani e
non all'interno di uno stesso piano. Questa conclusione - che del resto era già
presente nel movimento francescano, e in particolare in Bacone - porta ad alcune
conseguenze molto importanti: la filosofia (cioè la metafisica) ha un carattere
esclusivamente teoretico e conoscitivo, la teologia ha un carattere
esclusivamente pratico:
L'intera teologia è pratica...
Questo argomento viene confermato da ciò, che il primo oggetto della teologia
è il fine ultimo e che i principi desunti dal fine ultimo nell'intelletto
creato sono principi pratici. Dunque, i principi della teologia sono pratici;
dunque, anche le conclusioni sono pratiche... La fede non è abito speculativo né
il credere è un atto speculativo né la visione che segue il credere è
speculativa ma pratica. (Opus
oxoniense Prol., q. 4, n.3).
Tutte le verità teologiche sono quindi verità di fede, appartengono al
dominio della pratica, dettandone le norme di condotta, e non possono essere in
alcun modo dimostrate. Esse infatti sono sottoposte all’assoluta volontà di
Dio, che ha stabilito con la sua assoluta potenza la via della salvezza in
maniera del tutto autonoma da ogni legge naturale e quindi da ogni ragionamento
filosofico. La portata rivoluzionaria di quest'affermazione risulta chiara se
consideriamo che le più importanti tesi e proposizioni che la scolastica aveva
ritenuto razionali (e quindi dimostrabili) sono poste da Duns Scoto
completamente al di fuori del dominio della ragione. Soprattutto egli si
distanzia da San Tommaso d’Aquino e dall’aristotelismo. L’unica prova che
si può dare dell’esistenza di Dio è quella ontologica di Sant’Anselmo, che
però si basa sulla fede. La metafisica quindi non è più per Duns Scoto quella
sorta di ponte tra filosofia e teologia che San Tommaso aveva fondato sull’analogia
entis. Ormai la teologia è scienza pratica che indica la via cristiana
della salvezza, mentre la metafisica ha come oggetto l’essere in quanto
essere, ed è propria della ricerca filosofica. Così si attua con questo
pensatore il primo importante distacco tra ricerca di fede e ricerca razionale,
in anticipo sul Rinascimento. La metafisica di Duns Scoto è una delle più
complesse e articolate della scolastica; la sua pretesa di distinguere
sottilmente (Duns Scoto fu chiamato appunto doctor subtilis) una infinita
gamma di alternative logiche e razionali provocò notevoli discussioni ed ebbe
molti seguaci al suo tempo, ma fu anche una ragione del fastidio che ebbero i
filosofi moderni nei confronti della filosofia scolastica.
Un altro
importante concetto, che anticipa in qualche modo la nostra filosofia
esistenzialista e la moderna teologia è quello di hecceitas, inventato
da Duns Scoto, Contro Tommaso, che riteneva che il principio di individuazione
risiedesse nella materia segnata, Duns Scoto sostiene che il principium
individuationis risiede nella haecceitas. L'ecceità è appunto la
delimitazione della natura comune, cioè della quiddità; I'ecceità consiste
nel poter dire di una cosa "è proprio questo", riconoscendola nella
sua unità sostanziale (per esempio: questo uomo) al di là della molteplicità
dei singoli elementi che la compongono (per esempio: occhi, bocca, sangue, ossa,
e cosí via).
Per
individuazione o unità numerica o singolarità intendo non certo l'unità
indeterminata, secondo cui qualunque cosa entro la specie vien detta
numericamente una, ma l'unità determinata come questa (signatam ut hanc), in
modo che, come prima si è detto che è impossibile dividere l'individuo in
parti sostanziali, cosí dico che l'individuo non può non essere in pari tempo
questo individuo contrassegnato da questa determinazione singolare.
(Opus oxon. II, d.3,q.2)
L’hecceitas è quindi l’essere singolare dell’uomo qui e
adesso, l’essere che è sì attribuibile a tutti gli uomini ma che è prima di
tutto proprietà dell’ individuo. Si anticipa così il concetto che sarà
dell’Illuminismo, dove al concetto di persona viene sostituito quello di
individuo, e si anticipa anche l’esserci qui e adesso, concetto tipico
dell’esistenzialismo. La mistica francescana dell’Incarnazione si unisce al
ritorno dell’uomo come centro della ricerca e dell’interesse intellettuale.
La grande svolta antropocentrica del Rinascimento è già alle porte. La teoria
dell’individuazione, che sarà fatta propria anche da psicologi come Jung,
trova in Duns Scoto il punto di partenza. La linea seguita da Duns Scoto è in
effetti quella agostiniana che mette in evidenza il rapporto mistico
dell’anima con un Dio sostanzialmente irraggiungibile con la ragione. L’
assoluta trascendenza divina e la sua contemporanea presenza salvifica nella
persona di Cristo, centro dell’universo e della storia fanno della teologia
scotista una teologia essenzialmente cristocentrica. Questo non deve stupire, in
quanto il beato Duns Scoto si rifà alla grande tradizione teologica francescana
e tende a mettere in evidenza, con sensibilità tipica dei popoli del nord
Europa, il misterioso rapporto tra l’individuo e Dio, ed il paradosso fra la
trascendenza assoluta di Dio e la sua immanenza nel cuore dell’uomo. Tanto è
vero che Jung, dal punto di vista psicologico, affermerà che molti disturbi
dell’emozione derivano proprio dalla separazione da Dio, visto come principio
che fonda il Sé. Quindi ritroviamo in questo autore medievale alcuni temi che
sono propri del pensiero contemporaneo.
Ma
la crisi definitiva della scolastica del Medioevo si ebbe con Guglielmo di
Ockham (1290/1300-1348/50). Nato ad Ockham, nel Surrey, Guglielmo si formò
nell'ambiente culturale della scuola di Oxford, e in particolare subì
l'influenza del pensiero mistico e scientifico di Ruggiero Bacone. Anche se la
recente critica storica ha smentito un suo rapporto diretto di discepolato con
Duns Scoto, egli non sembra essere estraneo alle discussioni che la metafisica
di Duns Scoto suscitò nell'ambiente di Oxford. Entrato assai presto nell'ordine
francescano, subì intorno ai 30 anni una prima condanna per eresia da parte
dell'inquisizione. Recatosi ad Avignone per discolparsi, vi giunse nel momento
in cui era più violenta la lotta tra il papa Giovanni XXII e il generale dei
francescani Michele da Cesena. La disputa aveva come centro
il concetto dell'assoluta povertà di Cristo e degli apostoli, affermata
come articolo di fede dai francescani e negata dal papa, ed era una disputa che
andava ben al di là dell'aspetto religioso, coinvolgendo la condanna della
gerarchia ecclesiastica ormai completamente mondanizzata e lo stesso potere
temporale del papato. Guglielmo legò le sue sorti a quelle dei francescani
ribelli e di Michele da Cesena e quando il contrasto divenne inconciliabile
(Michele dichiarò il papa apostata e nemico di Cristo e quindi lo depose; il
papa dichiarò eretico Michele e lo scomunicò) dovette fuggire da Avignone e
rifugiarsi con Michele presso l'imperatore Ludovico il Bavaro. Alla corte
dell’imperatore egli si dedicò a scrivere opere in polemica con il papa,
contro Giovanni XXII ed in genere contro la supremazia papale, esprimendo tesi
in favore della teoria conciliarista del potere ecclesiale ( dove non è il
papa, ma la comunità ecclesiale ad esprimere il supremo magistero ecclesiale).
Falliti i tentativi di riscossa ghibellina in Italia, e mentre il capitolo
generale dei francescani, fino ad
allora favorevole a Michele da Cesena, lo sconfessava e sconfessava con lui i
francescani ribelli, Guglielmo si ritirò definitivamente a Monaco, dove si
dedicò alla stesura delle sue opere teologico-politiche. Dopo la morte di
Michele da Cesena e di Ludovico il Bavaro, Guglielmo tentò un riavvicinamento
all'ordine; il capitolo generale si dimostrò favorevole, ma la morte, dovuta
forse alla peste che in quegli anni infuriava in Europa, colse Guglielmo prima
che avvenisse la riconciliazione. Tra le molte sue opere ricordiamo: Commenti
alle Sentenze, Summa totius logicae, Commenti alla Fisica
e all'Organon aristotelici, sette libri di Quodlibeta, opuscoli
politici contro Giovanni XXII, De imperatorum et pontificum potestate.
Con Ockham il pensiero filosofico e la
spiritualità medievale si allontanano ancor più da S. Tommaso d’Aquino e dai
maestri della Scolastica del secolo precedente. Il primato della volontà e
della libertà assoluta di Dio fa ricollegare il pensiero di questo autore, che
ci porta già nel Rinascimento e con il suo pensiero politico anticipa in
qualche modo persino il pensiero liberale dell’800, a quello di Abelardo. Il
principio rivoluzionario della filosofia ockhamista è che “gli enti non
debbono esser moltiplicati oltre la stretta necessità" (entia non sunt
muItiplicanda praeter necessitatem): questo principio, che fu chiamato il
"rasoio di Ockham", consente di eliminare una buona parte delle
dottrine e delle discussioni logico-metafisiche proprie della scolastica, dalle
distinzioni tra intelletto attivo e intelletto passivo a quelle sulla
determinazione delle specie, dei vari tipi di universali, del principio di
individuazione, e cosí via. Questo stesso principio metodologico sarà alla
base della concezione "economica" della scienza che si svilupperà a
partire dal secolo XX, ed è tuttora applicato largamente anche nella ricerca
teologica, che risente del pensiero di questo grande francescano. L’unica
realtà esistente veramente è quella individuale: solo a partire
dall’esperienza si può avere una vera scienza.
“Dalla conoscenza intuitiva comincia la conoscenza
sperimentale; infatti, in genere, chi può mediante l'osservazione conoscere una
verità contingente e, per suo mezzo, una verità necessaria, ha una conoscenza
semplice di termini o cose che un altro, incapace di fare quell'osservazione,
non può avere. Come la conoscenza dei fatti sensibili ottenuti dall'esperienza
(come dice Aristotele) comincia con i sensi, ossia dalla intuizione sensibile
dei fatti sensibili, cosí in generale la conoscenza scientifica degli aspetti
puramente intelligibili dell'esperienza comincia con una intuizione intellettiva
di tali aspetti intelligibili.” (In Sent., Prol., q.
1)
I concetti universali, in realtà, non
esistono se non nella nostra mente: essi sono nomi che noi diamo alle
cose per convenzione, ed in realtà tutto il linguaggio, con cui noi indichiamo
gli oggetti, altro non è che una convenzione arbitraria. Riprendendo la
definizione di Aristotele che " le parole sono segni delle affezioni
interne dell'anima", Ockham intende i termini (voces) come segni
subordinati ai concetti, cioè alle intenzioni dell'anima:
“ma questo non significa che le parole indichino
propriamente e primariamente i concetti, bensì che le parole vengono coniate e
imposte per significare le cose stesse rappresentate dai concetti mentali. Perciò
il concetto significa qualcosa primariamente e naturalmente, mentre la parola
significa la stessa cosa secondariamente”.
(Summa totius logicae I, 1).
Questo significa non solo che è
impossibile pensare ad una realtà dei concetti o delle parole
indipendentemente dalla mente (quindi: né ante rem, né in re,
né post rem), ma anche che e impossibile conservare i due concetti
cardine della metafisica e della teologia medievale, quello di sostanza e
quello di causa. Il "rasoio" ci impedisce infatti sia di
ammettere una realtà sostanziale dell'oggetto oltre le concrete qualità
sensibili ricavate dall’esperienza, sia di ammettere il principio metafisico
di causa oltre la concreta successione dei fenomeni che ci attesta l'esperienza.
Le conseguenze in campo teologico sono notevoli: non si può dimostrare che Dio
è la causa efficiente di tutte le cose ed anche la dottrina ortodossa della
creazione non ha una giustificazione razionale. Ma, a rigore, è la stessa
esistenza di Dio che non può essere dimostrata: se proprio la fede ha bisogno
di una "prova", questa può essere al massimo quella ontologica di
Anselmo.
Tutta la ricerca medievale, basata sul linguaggio e sul suo rapporto con la realtà, trova quindi uno sbocco nel nominalismo e nell’ empirismo, che costituirà una caratteristica della successiva ricerca scientifica e filosofica rinascimentale, in particolare nella filosofia anglosassone, di cui Ockham è quindi uno dei precursori. Da questa base Ockham ricava quindi la teoria della supposizione, che è ormai usatissima in tutta la scienza contemporanea. Non si può più parlare di scienza come conoscenza delle cause, come facevano Aristotele e S. Tommaso d’Aquino, ma di scienza come modello, derivata dal fatto che lo stesso oggetto può avere diversi modi di essere studiato, ed anche il linguaggio che esprime il modello è sempre una convenzione. Questo modo di affrontare il linguaggio, ripreso da Abelardo, filtrato attraverso la metafisica di Duns Scoto, è stato poi ripreso dai filosofi del linguaggio del ‘900, come Wittgenstein:
“se si scrivono le quattro proposizioni seguenti:
"l'uomo è un animale" "l'uomo è una specie", "uomo è
una parola di due sillabe", "uomo è una parola scritta", ogni
proposizione può essere vera, ma ognuna in modo diverso, perché ciò che è un
animale non è affatto una specie e nemmeno una parola di due sillabe, né una
parola scritta.” (Summa tot. log I, 64)
Ma allora ogni discorso su Dio e sulla sua realtà è destinato inevitabilmente ad essere chiuso? Dovremo interrompere la ricerca teologica nella pura negatività, dicendo di Dio solo quello che non è? In effetti Ockham non azzarda ancora un’ipotesi del genere, non è un precursore della teologia della “morte di Dio”. Egli vuol sottolineare che l'onnipotenza, la libertà, l'autonomia di Dio, non sono circoscrivibili "dal basso" nelle parole umane; bensì esse stesse fondano la concezione di quello che definiremmo un Deus semper maior. Se questo è vero, porre il problema di Dio in teologia significa anche riconoscere la piccolezza e l’umiltà dell'uomo, che, in conformità alla volontà divina, sviluppa espressioni teologiche dense di cautela, pur non riducendosi al silenzio. L’afflato mistico francescano si ricollega quindi alla teologia dello Pseudo Dionigi e alla mistica renana. In questa prospettiva la verità teologica deriva direttamente da un intervento divino, in forza della sua potentia absoluta. Il carattere scientifico della disciplina è dato dalla capacità di utilizzare la ragione per articolare le proposizioni teologiche provenienti dalla rivelazione. La teologia, come per Alessandro di Hales (altro francescano) parte quindi dalla Rivelazione e da essa deriva. Su di essa sviluppa proposizioni, mediante il processo sillogistico e la logica dei termini, sulla base di due principi, quello di "non-contraddizione" ed il famoso "rasoio di Occam", cioè il principio di semplificazione (non sunt moltiplicanda entia sine necessitate; anche detto: pluralitas non est ponenda sine necessitate). La teoria semantica della suppositio rende ragione anche dello statuto logico del "dire" teologico, aiutando a stabilire i precisi significati dei termini e delle proposizioni teologiche. Un elemento di notevole novità, questo, poiché si era sempre pensato il contrario, cioè che la logica di Occam, in fin dei conti, decurtasse la teologia. È infatti possibile fornire una definizione di Dio senza avere una conoscenza diretta di Lui, se "definizione" è intesa come concetto aperto ad un compimento. In questo caso, la definizione svolge una funzione evocativa, in accordo con l'economia salvifica. Essa pone gli uomini davanti al mistero, spingendo verso la dimensione salvifica ultima, che darà anche compimento alla definizione di Dio, oltre che al senso dell' esistenza umana. Essa è logica, sensata e di indole non apofatica (negativa), almeno non totalmente, già qui ed ora, se non altro perché guida verso la salvezza, e quindi a Dio. Qui accade il fatto forse più significativo della concezione teologica di Occam: si salda definitivamente la theologia viatorum, la teologia dei viventi in cammino verso il Regno — la nostra insomma —, con uno statuto eminentemente pratico della teologia.
E’ chiaro comunque che con questi due pensatori si opera una cesura, un taglio con la precedente teologia scolastica: con essi il sentimento rinascimentale ( ed anche quello nostro) di una divisione tra piano scientifico razionale e piano teologico della fede diventa realtà. Ormai prevale il sentimento dell’assoluta volontà di Dio come causa della fede, e la realtà di Dio così vicina nell’ analogia entis di S. Tommaso d’Aquino diventa di nuovo distante, misteriosa come la nube di Mosé: non a caso le opere di spiritualità di questo ultimo scorcio del Medio evo ci riportano verso questo sentimento : l’ Imitazione di Cristo, di origine olandese e la Nube della non conoscenza, di origine inglese sono un segnale del cambiamento spirituale. La teologia e la spiritualità si rivolgono sempre più alla pratica personale, al personale rapporto dell’anima con Dio, un Dio misteriosamente nascente e presente nel fondo del cuore ( e qui mi ricollego ad un altro grande teologo del periodo, Maestro Echkart). Ciò risponde anche alla profonda crisi dell’istituzione papale, chiusa nei fasti di Avignone, e presa da furibondo lotte per il potere temporale. Il papa non riesce più ad essere in quel periodo la guida spirituale del popolo cristiano ed il punto di riferimento morale dell’Europa occidentale come è per noi Giovanni Paolo II. La lenta ed inesorabile crisi sfocierà inevitabilmente nel grande scisma d’Occidente e nella Riforma di Martin Lutero.
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