Due teologi francescani
marchigiani
nel
dibattito teologico del Trecento
Francesco
d’Appignano e Giovanni di Ripatransone
di Claudio
Attardi
Il dibattito teologico che si sviluppa dopo la morte dei due grandi maestri del Duecento, S. Tommaso d’Aquino (domenicano) e S. Bonaventura da Bagnoregio (francescano), è estremamente complesso, ricco di fermenti e di questioni dibattute. Mentre dalla parte dei frati domenicani non emergono personalità teologiche di spicco, che sappiano rinnovare e approfondire la teologia tomista, la teologia francescana tenta di sviluppare il pensiero del grande maestro laziale. Essa ha in questo il contributo dei due ultimi maestri di teologia noti al grande pubblico, il beato Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham. Dietro a questi maestri inglesi, che insegnano in Francia e in Germania, si sviluppa da un lato il dibattito teologico ed ecclesiologico sulla povertà, aperto gia il secolo prima, dall’altro il tentativo di superare lo stretto determinismo logico del tomismo ed approfondire l’agostiniano tema della volontà divina e della sua inconoscibilità, caro a S. Bonaventura. Il dibattito si allarga poi alla sfera politica, con un modo di pensare tutto medievale, coinvolgendo continuamente i rapporti tra il papato, l’imperatore del Sacro Romano Impero, i re di Francia e dei vari stati dell’Europa medievale. In questo dibattito si inseriscono due teologi francescani marchigiani che insegnarono a Parigi, Francesco d’Appignano ( o della Marca) e Giovanni di Ripa (odierna Ripatransone). Il primo entrerà nella storia del suo ordine nell’ambito della lotta tra i francescani cosiddetti “Spirituali”, presenti in abbondanza nelle Marche del ‘300 e il papato, ma non solo per questo.
Infatti su Francesco d’Appignano ( o di Ascoli o della Marca) si è concentrata recentemente l’ attenzione degli studiosi, grazie all’opera del Centro Studi Francesco d’Appignano. Il Centro ha saputo infatti promuovere gli studi sul teologo francescano marchigiano attraverso l’organizzazione del Congresso internazionale di studi sulla figura e il pensiero di Francesco. Questo evento è diventato punto di riferimento per studiosi ed appassionati del teologo medievale. Accanto al congresso, è stato pubblicato un bel sito, tutto dedicato a Francesco d’ Appignano ed al congresso, con pubblicazione di fonti, risorse e atti dei convegni http://www.francescodappignano.it/ . A questo sito fa anche riferimento questa pagina, e lì si possono trovare risorse gratuite e link interessanti. Da esso questa pagina web parte per indicare, nella brevità di questo scritto, nuove vie di ricerca sulla figura di questo frate .
Chi era dunque Francesco, e soprattutto come egli incarna nella sua vita e nei suoi scritti lo spirito dell’uomo medievale? E in particolar modo dell’uomo medievale marchigiano? Alcuni aspetti della sua vita e del suo pensiero posso essere secondo me indicativi per iniziare ricerche in tal senso. Una prima sensazione che si riceva leggendo i suoi scritti e gli atti dei convegni precedenti è quella di un uomo che, pur non essendo famoso come il suo maestro Duns Scoto, ha contribuito in maniera significativa allo sviluppo della fede e della scienza, con spirito tutto medievale, nel quale i due ambiti sono strettamente collegati. Egli è sicuramente discepolo di Scoto e ne segue il pensiero, ma mentre per il maestro inglese la teologia è più sapientia che scientia [1], Francesco prende una strada un po’ diversa. Per lui infatti l’atto di fede consiste in un’evidenza immediata della verità da credere, da accogliere con la volontà, sostenuta con la ragione da motivi di credibilità estrinseca (forse si rifà al revelabile tomista?). Da qui, con un atto dell’intelligenza, si giunge alla certezza delle verità rivelate (Revelatum) Queste sono estrinseche alla ragione, per cui interviene la volontà di adesione, anche se è un intervento secondario a quello dell’intelletto[2]. Questa linea intellettualistica fu apprezzata e seguita nell’ambito dei Frati Minori. Essa, a mio parere, sembra voler portare delle piccole correzioni alla prospettiva scotista, che invece fa della teologia una scienza eminentemente pratica, basata sui consigli evangelici e non sulla speculazione. In questo il Doctor Succintus, come poi venne chiamato, sembra voler trovare un miglior equilibrio tra Revelatum e rivelabile, cioè tra gli articoli di fede che non si possono conoscere con la ragione, e a cui si aderisce immediatamente con la volontà ( sulla linea scotista) e i motivi di credibilità estrinseci alla Rivelazione (rivelabile), che possono essere elaborati dalla ragione (e qui siamo di più sulla linea tomista). Questo aspetto di originalità, rispetto al pensiero del suo maestro, è presente nella sua opera maggiore, il Commento alle Sentenze, il fortunato libro di Pietro Lombardo che tutti i maestri medievali di teologia della Sorbona hanno commentato.
Un altro aspetto per cui frate Francesco ha lasciato il segno è per le sue prese di posizione spirituali e i suoi interventi scritti sul problema della povertà cristiana. Problema non nuovo, nella storia della Chiesa, e che si era presentato più volte durante il millennio medievale. Esso diventa più acuto però con il sorgere della civiltà comunale, quando ormai i monasteri benedettini avevano accumulato ingenti ricchezze comunitarie, e per questo erano stati più volte criticati, e al tempo stesso sorgeva la civiltà comunale, assieme agli ordini mendicanti. Con la civiltà comunale e il sorgere e risorgere di città e paesi, la ricchezza non si basa più sul possesso della terra, cosa impossibile in un ambito ristretto e popoloso come quello cittadino, ma sul commercio e sugli investimenti in denaro. La borghesia commerciale e le corporazioni cominciano cioè a far sentire il loro peso, e pongono un problema che non è solo sociale ma spirituale, dato che non si concepiva una res publica che non fosse cristiana. In questo contesto, S. Francesco d’Assisi è colui che, assieme a S. Domenico di Guzman, seppe dare la risposta più rivoluzionaria, dal punto di vista spirituale, che il Medio evo abbia prodotto. L’abbraccio della povertà totale, estesa anche all’ordine e non solo ai frati, fece sorgere ben presto problemi e tensioni sia all’interno dell’ordine francescano che nella Chiesa. Si poneva infatti il delicato problema ecclesiologico della povertà. Come essa doveva essere intesa? Sopra questo problema interno si sovrappone poi il problema politico dei rapporti tra i papi ad Avignone, la corona francese e gli imperatori germanici del Sacro Romano Impero[3]. Alla fine chi doveva decidere come concretizzare la regola di povertà all’interno dell’ordine dei frati Minori, quando esso in pochi anni aveva avuto in lascito imponenti ricchezze in denaro e in immobili, come diremo noi? Era un problema interno all’ordine o doveva intervenire il supremo magistero ecclesiastico? E’ questo il nocciolo della polemica tra Giovanni XXII, Ludovico il Bavaro, il generale dell’ordine frate Michele da Cesena e i frati più radicalmente osservanti, i cosiddetti Spirituali, presenti in maniera importante nelle Marche. Il frutto di questa polemica, visto dalla parte dei frati è il libro di frate Francesco “Contestazione del Libello del papa Giovanni XXII che comincia ‘Poiché il temerario “ . Questa fonte è visibile e scaricabile dal sito del Centro Studi già citato sopra.
Un terzo aspetto per cui il frate francescano è stato ripreso in considerazione negli ultimi anni è la sua teoria del moto. Un corpo, quando viene mosso, continua il suo moto non all’infinito ma fino ad un certo punto, finché questa forza che lo ha mosso non si esaurisce. Questa forza che viene rilasciata (vis derelicta) non appartiene più direttamente a chi o cosa ha provocato inizialmente il moto, ma in qualche maniera al corpo stesso che si muove, e che finisce in proporzione al corpo e alla spinta iniziale. Devo ammettere che, non essendo un fisico, ho fatto fatica ad entrare nella questione posta da Francesco. Però mi sembra che si apra una via di superamento alla semplice teoria aristotelica di causa – effetto, prendendo in considerazione la forza rilasciata in sé e quindi dando spunto alla moderna teoria del moto dei corpi, molto più complessa e attenta alla relatività del moto[4]
Giovanni di Ripa (Ripatransone) è passato alla storia della teologia e della filosofia con l’appellativo di Doctor supersubtilis per la complessità e l’originalità del suo pensiero. Per noi è difficile capire che, come nel caso di Francesco d’Appignano, le ipotesi scientifiche o filosofiche più ardite e proiettate ai limiti della conoscenza nascessero dalla riflessione teologica. Eppure nel Medio evo fu così, perché non c’era contrapposizione tra scienza e fede. Anzi il problema della conoscenza di Dio ( sostanza infinita o come dice Giovanni immensa) da parte dell’uomo, creatura finita, spinse avanti la tensione speculativa, e Giovanni ne è un esempio che oggi si rivaluta sempre più.Egli insegna a Parigi tra il 1350 e il 1368, e qui scrive, nella sua sterminata opera, in gran parte inedita, le sue opere maggiori, Lectura super primum Sententiarum, Determinationes, Quasestio de gradu supremo. La sua è un epoca di grandi fermenti politici, ecclesiali e teologici Egli mette in discussione il determinismo aristotelico e tardo scolastico, per il quale non si può procedere all’infinito nell’ordine delle cause finite[5]. Il concetto di immensitas viene sostituito a quello di infinitas, perché l’immensità di Dio spiegherebbe la possibilità dell’esistenza di sostanze infinite create o di mondi infiniti creati in atto, che dipendono dall’immensità di Dio. In tal modo ogni creatura ha un suo posto nella serie infinita degli esseri (latitudo la chiama il maestro marchigiano). Nel posto in cui essa è messa in questa scala infinita di esseri creati essa riassume anche le latitudines inferiori. Non solo, ma più l’essere è in alto nella scala delle latitudines, più è dipendente da Dio, più energia ha bisogno per il suo sostentamento. L’infinita scala di creature postula quindi un termine fisso oltre la latitudo e questo termine è l’ immensitas divina[6].
La conoscenza teologica ha il suo termine nella visione dei beati. Ora come può un essere finito, il beato, comprendere l’ immensità di Dio? Giovanni non parte dal concetto tomista di forma ma da quello di immutatio vitalis immutazione vitale[7]. La latitudo umana beatificata percepisce l’immensità divina senza trasmutare la propria essenza. I beati quindi non avrebbe la visione di Dio per analogia entis ma per un’intuizione – comunione (informatio) molto simile a quella visione mistica già presente nell’ultimo canto della Divina Commedia, visione che però conserva la differenza vitale tra immensitas divina e latitudo umana. Un concetto quanto mai originale, un nuovo modo di porre il problema di Dio, estremamente concettuale, ma rigoroso e degno di essere conosciuto meglio.
Quello che appare in questi due teologi è, a mio avviso, anche il loro essere marchigiani: originalità di approccio nella ardua materia da essi studiata ed insegnata ai massimi livelli, pur non essendo famosi come altri maestri francescani. Silenzio e scarsità di notizie biografiche rispondono anch’essi al carattere marchigiano, di lavoratori originali ma poco appariscenti e poco inclini alla pubblicità. Che anche al loro tempo e nell’ambito dell’università parigina aveva il suo peso. Ed infine la loro libertà, altro segnale dell’essere marchigiani, la loro indipendenza di pensiero, pur rimanendo nella verità di fede cristiana e nell’obbedienza alla regola francescana. Mi sembrano questi i punti salienti che caratterizzano questi due grandi e poco conosciuti maestri marchigiani di teologia, che meritano senz’altro una più ampia conoscenza, sia in ambito locale che fra il pubblico e i fruitori della rete.
attardiclpat@libero.it
[1] Cfr. Opus Oxoniensi, Prol. Pars I, Quaestio unica, n. 211, p. 145, secondo la tradizione di S. Bonaventura, per cui “Theologia sapida scientia”.
[2] A.TEETAERT, s.v. Pignano, François de, DTC, 12, Paris 1935, coll. 2104-2109, in GP D’ONOFRIO ( a cura di), Storia della teologia nel Medio Evo, III, Piemme, Torino 1996, p. 364.
[3] Per questo punto, tra gli Atti pubblicati dal Centro Studi Francesco d’Appignano, segnalo F . IOZZELLI, Impero e papato nella prima metà del Trecento, in (a cura di) D. PRIORI – M. BALENA, Atti del I Convegno Internazionale su Francesco d’Appignano, 2001, pp. 29-50.
[4] D. PRIORI, Quamvis autem ista sint puerilia , in Atti del III Convegno Internazionale…, op. cit. , Appianano del Tronto, 2006, pp. 105- 124.
[5] A. COMBES, prefazione a Jean de Ripa, Lectura super primum Sententiarum, Prologo Quaestiones I e II, paris 1961, p. XXXII
[6] G.PERILLO, Recensione a Marta Cristiani( a cura di) Giovanni da Ripa e dintorni. Una cultura della complessità: la civiltà del XIV secolo, in Diaghestai, Rivista telematica di filosofia on line, anno 3, 2001, 5 novembre.
[7] G. D’ONOFRIO (a cura di), Giovanni di Ripatransone, in Storia della Teologia nel Medio Evo, III, Piemme 1996, pp. 366- 370.